E’ da una settimana che mi gira per la mente la foto del ciclista ucciso a Bucha da un blindato russo. Non conosco il suo nome, la sua età, il suo mestiere, ciononostante mi è diventato famigliare, quasi un amico o un lontano parente. Dopo aver letto e ascoltato tante analisi di natura geopolitica e di economia internazionale, la mia attenzione si è concentrata su un unico individuo, su un inerme e inutile ciclista che percorreva un piccolo e sconosciuto villaggio nell’hinterland di Kiev.

Quell’uomo non rappresentava alcuna minaccia, era probabilmente disarmato, aveva sicuramente un motivo valido per spostarsi in un luogo invaso da militari armati e pronti a uccidere. Forse portava cibo o medicine a qualche parente in difficoltà, forse andava a verificare la situazione a casa di qualche amico o famigliare. Fino a poche settimane prima trascorreva una vita semplice e concreta, aspettando giorni di festa per ridere con gli amici, senza immaginare che la sua vita sarebbe presto giunta al termine, senza alcuna colpa da parte sua e senza alcuna necessità.

Una vita piena, per una morte vuota. Una vita con un senso, come ogni vita, ma una morte evitabile e priva di senso. Se il militare che ha sparato avesse tirato dritto con il suo blindato, evitando di fare il tiro a segno come al luna park, la sua vita avrebbe proseguito. Un secondo per premere il grilletto, senza il tempo di riflettere sulle conseguenze di quel piccolo movimento di un dito, una vita che si ferma, forse una vedova, forse degli orfani, sicuramente progetti interrotti e cose incompiute. Immagino un lavoro in garage da finire, un libro cominciato da poco abbandonato sul comodino senza poterne conoscere la conclusione.

Quel ciclista potrei essere io, potresti essere tu che leggi.