Il ritratto di Camille Roulin, figlio del postino amico di Van Gogh, non è mai stato tra i miei preferiti. L’espressione del ragazzo è intensa e misteriosa, ma l’eccesso di giallo del viso rischia di perdersi nel giallo dello sfondo; osservandolo da lontano quello che colpisce immediatamente è il cappello color blu ricco di sfumature e il bottone rosso della giacchetta proprio sotto il mento.
Osservare un quadro dall’illustrazione di un libro, pur con una buona carta e una buona stampa, rischia di trarre in inganno e oggi ho avuto la dimostrazione che qualunque riproduzione è pura illusione. Assuefatti a un bombardamento di immagini, su libri e su schermi (oggi anche tablet e smartphone tascabili), rischiamo di confondere il falso dal vero o semplicemente di sottovalutarne la differenza, accettando superficialmente per vero quello che vero non è. Per riconoscere e smascherare la finzione esiste soltanto una strada: ritrovarsi davanti alla verità, nel nostro caso, all’originale. A quel punto ogni altra immagine inesorabilmente inizia a sfuocare fino a scomparire, lasciando il posto all’unica vera e irripetibile realtà originale.
Oggi ho potuto osservare da molto vicino (pochi centimetri) il ritratto che Van Gogh fece nel 1888 al figlio del postino Roulin. Mi sono trovato davanti a quella tela tenuta in mano dal pittore oltre un secolo fa. Da vicino le pennellate giallo ocra del viso appaiono del tutto diverse dal giallo dello sfondo, il viso appare più ricco di colore, più rotondo e pieno, proprio come quello di un ragazzino di fine ‘800. Sulla fronte si notano piccole pennellate (invisibili già a un metro di distanza), verticali e equidistanti, di color blu, ma di un blu più sfumato rispetto al colore del capello; si tratta del riflesso, labile e impercettibile, che il berretto produce sulla pelle liscia e tirata della fronte del ragazzo. Sono convinto che queste lievi pennellate non sono state messe lì per caso o per semplice impulso creativo, ma sono l’esito della riflessione tecnica e artistica di un singolo individuo, in una preciso momento della sua vita e della storia umana, in un luogo specifico del nostro vasto mondo.
E proprio oggi, in un piovoso sabato mattina del 2018, un’altra persona che nel 1888 non era ancora nata, nel 58° suo anno di vita, si reca intenzionalmente a Milano a osservare per alcuni minuti l’esito di quelle leggere pennellate prodotte dalla mano di un pittore, morto da tempo, ma la cui vitalità è rimasta per sempre incollata a quel colore. Per pochi minuti ho provato quello che aveva provato Van Gogh nel disporre quelle millimetriche linee di blu sulla fronte del giovane Camille. Ho percepito nuovamente la soddisfazione nell’aver trovato la soluzione per rendere su una tela piatta la sporgenza della visiera del berretto. Forse non era il primo tentativo, ma è senz’altro stato l’ultimo, quello che è arrivato fino a noi, anzi fino a me in questo preciso momento.
Osservando il quadro da distanza ravvicinata, ma spostandomi lentamente di lato, l’immagine perde coerenza e definizione, ma in compenso rivela particolari non visibili all’osservazione frontale: emerge lo spessore delle pennellate, che appaiono così tridimensionali. Di lato il quadro improvvisamente prende forma e spessore, e in quelle pennellate si rivelano i gesti che le hanno prodotte. In quegli attimi sembrava di sentire l’odore di quel colore, ma anche il rumore del pennello che si sposta dalla tavolozza alla tela, e dietro al pennello compare un viso concentrato, con lo sguardo fisso sull’effetto che si sta cercando di creare.
Passando dalla fronte di Camille agli occhi ho potuto notare le due precise macchie di bianco che rendono lo sguardo espressivo e vivo (una tecnica ampiamente diffusa), ma scendendo più in basso un’altra macchia bianca ha catturato la mia attenzione. Si tratta di un vero e proprio ‘grumo’ di colore, messo dal pittore nell’angolo destro del collo, dove il colletto per pochi millimetri sporge dalla giacchetta verde. Da lontano questa piccola macchia di bianco non è visibile, ma permette all’immagine di acquistare luce e forma. Per un paio di minuti ho provato la stessa emozione e piacere vissuti da Van Gogh nel scegliere il pennello giusto (grande ma non troppo), immergerlo nel bianco pulito, portarlo sul quel punto della tela per dare forma a quel lato del viso, in una zona molto delicata tra la giacca e la pelle del collo. Mi sono concentrato, ho respirato lentamente, ho deposto il colore con una lieve rotazione del polso, senza paura di sbagliare ma senza la certezza del risultato. Ho tirato indietro il pennello, ho allontanato leggermente la testa e ho osservato l’effetto. Buono, mi piace, ci sta. Sono contento, avevo ragione, quei pochi millimetri di bianco dovevano andare proprio lì.
Per due minuti sono stato Van Gogh. Dopo esattamente 120 anni, una macchia bianca di colore, messa su una tela in un paesello mediterraneo, che in seguito ha viaggiato fino in America a Philadelphia e nel 2018 è volata per tornare nel continente dal quale era partita, è giunta fino a me per colpire i miei occhi e regalarmi per alcuni minuti le emozioni all’origine di quel piccolo grumo di colore. Da oggi però non riuscirò più a guardare con interesse e piacere copie del ritratto del giovane Roulin, dopo aver vissuto il vero, il falso viene definitivamente smascherato e diventa inaccettabile. Forse avviene lo stesso con le persone e con i rapporti umani.