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C’è chi considera l’alpinismo uno sport. Per essere considerato tale però occorrerebbe che anche in montagna si realizzassero certe condizioni: agonismo, regole precise, spettatori più o meno paganti, sponsor, partecipazione dei media, ecc. Oggi come ai tempi degli antichi greci, lo sport propriamente detto presuppone un rapporto tra atleti e pubblico, in un contesto di spettacolo più o meno mediatizzato.
Nell’alpinismo professionistico (che quindi necessita di sponsor) sono indubbiamente presenti parte delle caratteristiche sopra riportate; ma questo riguarda poche persone, per la maggior parte degli alpinisti la componente sportiva si limita alla “muscolarità” del gesto e alla necessità di un duro allenamento.
E’ utile osservare che generalmente gli sport non professionistici non presentano rischi ambientali così elevati da mettere a repentaglio la vita dei praticanti; anzi, nelle regole di ogni sport sono richieste le migliori condizioni possibili al fine di ottimizzare le performance; sotto questa prospettiva una scalata invernale o una traversata notturna in quota possono sembrare prive di senso.
Per la grande maggioranza degli alpinisti l’agonismo è con se stessi (e non con altri competitori); l’obiettivo è generalmente quello di migliorare le proprie prestazioni, così da poter tentare salite progressivamente più impegnative, e quindi anche più gratificanti. Il rapporto con gli altri è quasi sempre legato al desiderio di condividere le emozioni ed eventualmente alla necessità di ottenere informazioni per nuove salite.
Non ci sembra di poter definire sport tout-court un’attività nella quale un individuo, privo di alcuna motivazione economica, si avventura volontariamente in un ambiente ostile e pericoloso, cercando di raggiungere una cima deserta, magari per la via più difficile, con il solo obiettivo finale di tornarsene a casa vivo.
Se l’alpinismo non può essere considerato uno sport, non può neppure essere definito una forma di esplorazione, in quanto oggi le guide, le foto, i video, il gps, permettono generalmente di conoscere con grande precisione le caratteristiche della montagna che si decide di salire; per molte scalate già da casa è possibile sapere esattamente dove sono collocati i singoli chiodi per le soste o per le calate. L’alpinismo esplorativo è terminato alcune decenni orsono, quando si salivano le cime dalla parete più facile e per la via più semplice. Ormai nessuno sale più i monti per fare esperimenti scientifici o rilievi topografici.
Le montagne non vengono più salite neppure per motivi spirituali, anche perchè si è capito che è più utile cercare Dio tra la gente e tra i problemi di tutti i giorni; inoltre ambienti deserti e silenziosi sono presenti un po’ dappertutto (anche al mare).
Non si sale più una montagna neppure per goderne il panorama; molte bellissime arrampicate moderne non raggiungono alcuna cima e spesso ci si cala al termine delle difficoltà prima ancora di raggiungerne la vetta; molte cime sono poi facilmente raggiungibili da funivie o da comodi sentieri.
E’ escluso che la maggior parte degli alpinisti vada in montagna per soffrire la fatica e il freddo o per sentirsi forti e superiori agli altri; coloro che vanno in montagna sono persone normali, che conducono una vita sociale e professionale identica a coloro che non praticano l’alpinismo e amano una vita comoda e sicura.
Ritengo che la decisione di scalare una parete non derivi neppure da motivi estetici; una placca o uno spigolo sono molto più belli visti da lontano di quanto appaiano da vicino, magari strisciando all’interno di una fessura svasata…
Chi ama la montagna con i suoi boschi, i suoi fiori, gli spazi e i panorami, puo’ semplicemente percorrere, con accettabile sicurezza e relativa fatica, i numerosi e ben segnati sentieri, utilizzando gli onnipresenti e confortevoli rifugi per rinfocillarsi e riposare.
Un alpinista che utilizza il proprio tempo libero non può essere motivato soltanto e semplicemente dal divertimento prodotto dal gesto dell’arrampicata, per questo è molto più divertente (nel senso ludico del termine) usare le falesie all’aperto o indoor, di roccia naturale o con appigli artificiali. Il divertimento puro inoltre non si sposa con il pericolo ed il rischio dell’alpinismo, quando si ha paura infatti non ci si diverte e se pratichiamo un gioco dobbiamo poter smettere quando vogliamo (quando cioè non ci divertiamo più).
Se tutto questo non è alpinismo, allora cos’è che caratterizza l’alpinismo?
La risposta (una risposta) la possiamo trovare, credo in modo abbastanza facile, seguendo passo dopo passo un qualunque alpinista in attività.
Partiamo da una settimana di lavoro con i soliti ritmi veloci, con i suoi semafori e parcheggi impossibili, i colleghi schizzati, la burocrazia fine a se stessa, i rumori che coprono anche i pensieri, le serate a fare svogliatamente zapping, la nebbia che puzza, …. dal finestrino dell’auto la pubblicità di una nota giacca a vento stampa sulla nostra retina, e da lì direttamente al nostro cervello, l’immagine di una parete innevata fotografata in quel momento del tramonto che precede il buio (cioè quei pochi minuti nei quali una luce irreale ammorbidisce i contorni delle montagne mettendone in risalto i rilievi); in un appassionato di montagna una visione come questa può attivare, in maniera improvvisa e incontrollata, tutte le sue passate esperienze alpinistiche: dalle semplici camminate fatte da bambino fino all’impresa di pochi anni fa nel pieno della forma fisica.
A questo punto fino al prossimo semaforo il nostro alpinista inizia a sfogliare mentalmente la sua guida preferita, scegliendo la via che da due anni ha programmato di salire; nel contempo cerca di ricordare quale tra i suoi abituali compagni di cordata potrà essere libero nel prossimo week-end.
Fin qui sta solo sognando, ma in alpinismo, ci insegna Massimo Mila, il sapere e il conoscere coincidono con il fare. Infatti già venerdì sera inizia il fare: occorre scegliere con attenzione il materiale e preparare lo zaino con tutto il necessario (ma anche con un po’ di quel superfluo che normalmente ogni alpinista porta con sè).
Preparare il materiale e consultare in dettaglio la guida è già partire; da quel momento l’alpinista è fisicamente a casa, ma per i suoi famigliari o gli altri amici è già almeno a duemila metri sul livello del mare.
Quando finalmente parte davvero è ancora buio, gli altri stanno ancora dormendo; e questo lo porta a sentire che sta per cominciare qualcosa di speciale, perchè percepisce il privilegio di vivere forti emozioni quando il resto del mondo è ancora perso nel nulla del sonno. L’alba e il silenzio che lo avvolgono sono diversi dalle mattine in cui deve recarsi presto al lavoro; quest’alba è diversa perchè lui stesso è diverso.
Alla luce incerta del mattino la parete fa un po’ paura, era più coraggioso quando al semaforo tre giorni prima aveva deciso questa scalata. Nel momento di legarsi alla corda la tensione è ancora più alta, al punto che né lui né il compagno aprono bocca, si legano e si attrezzano in silenzio. Dopo i primi metri la sua tensione si scioglie come d’incanto; già al primo tiro invece di sentirsi attratto verso il basso dalla gravità, si sente tirare in alto verso quella fessura inclinata lassù; corre addirittura il rischio di andare troppo veloce e di saltare dei rinvii intermedi, vorrebbe non avere l’impaccio della corda e non doversi fermare per far salire il compagno.
Quando il nostro alpinista è già abbastanza in alto, rivive la nota emozione che tante volte ha provato nell’osservare la valle e i paesini spruzzati ai lati del torrente; laggiù molta gente sta vivendo e lavorando, ma per lui lì in parete la valle sembra deserta o abitata da marziani, la vita adesso è quassù (anche la morte non è poi così lontana, è sufficiente che un chiodo si sfili o che un appiglio salti…).
Con il compagno parla attraverso la corda e alle soste avviene un breve scambio di opinioni sul prossimo tiro. Capita di sapere poco della vita e del carattere del compagno, ma non servono molte informazioni, egli infatti è qui con noi a condividere le stesse emozioni e gli stessi pericoli, e le nostre vite sono strettamente legate, come due gemelli nella pancia della mamma.
In montagna un primario medico e il suo compagno di cordata netturbino riescono ad arrampicare con grande affiatamento; giù in città la loro vita segue strade, orari e stipendi completamente differenti, in parete invece sono identici (hanno anche lo zaino della stessa marca), possegono la stessa cultura alpinistica perchè hanno letto gli stessi libri, e nell’aggredire una difficile fessura in dulferr è indifferente se durante la settimana passata hanno utilizzato un bisturi o la ramazza.
Ormai siamo in alto sulla parete e bisogna affrontare il passaggio chiave della via, quello che non richiede soltanto un po’ di forza, ma che necessita di essere interpretato; è stata questa l’intuizione dei primi salitori, qelli che hanno saputo capire come si doveva passare (i loro predecessori che avevano cercato di “forzare” alla fine hhanno dovuto rinunciare); in questo punto preciso della via la parete si concede o si oppone, come se fosse lei a decidere chi ha diritto di passare.
Dal momento in cui al semaforo il nostro alpinista aveva deciso di compiere questa scalata, lentamente aveva cominciato ad allontanarsi dal mondo di ogni giorno e aveva iniziato un progressivo percorso per giungere proprio al passaggio chiave della via; gradualmente si era spogliato del proprio lavoro, delle proprie cose, dei problemi personali e collettivi, dei dubbi e delle aspettative per il futuro, per arrivare a tenere tenacemente quest’unico appiglio buono. Egli è nudo di ogni cosa superflua, sostenuto solo da se stesso, da tutto se stesso; in questa situazione per lui estrema, con la morte che può prendere l’aspetto di un temporale improvviso o di una scarica di pietre, egli torna all’origine di se stesso, ricco solo della propria consapevolezza di esserci, con la volontà tutta concentrata ad ottenere il maggiore equilibrio possibile e riuscire così a superare il passaggio. Questo ostacolo non gli è stato mandato dalla sfortuna o da qualcuno che voleva metterlo alla prova, se lo è cercato lui per tornare, forse inconsciamente, in una situazione essenziale e primordiale; a questo punto tutto il suo essere è finalizzato a prendere una piccola scaglia di roccia in grado di farlo procedere. Il resto del mondo e la sua stessa vita passata non esistono più.
Egli non fa tutto ciò allo scopo di soffrire, in realtà si sta maledettamente divertendo; e neppure vuole fuggire dal mondo o da se stesso, è lì invece proprio per ritrovarsi nuovo ed essenziale come quando era nato; paradossalmente (ma non troppo) egli sta quasi uscendo dalla vita con lo scopo di ritornarvi più consapevole; è momentaneamente uscito dal tempo per riprendere con maggiore forza e determinazione la sua parte di storia.
Tutto questo in quei pochi metri di pietra fredda, da solo e senza dire una parola. Probabilmente altri riescono a vivere un’esperienza analoga andando in mezzo alla gente, tra i libri di una biblioteca, immergendosi nel mare o ascoltando una sinfonia; per lui invece la strada passa inevitabilmente da quel passaggio in parete.
Potremmo concludere che l’alpinismo è una forma di religione o forse una vera e propria droga (può infatti dare dipendenza e assuefazione), ma sarebbe senz’altro un’esagerazione. L’alpinismo è soltanto un mezzo privilegiato ed efficace per ritrovare il meglio di sè, da riportare poi giù a valle a disposizione di tutti.