VIA D’AZEGLIO, 34/A
Articolo pubblicato su Repbblica.parma e Gazzetta.online, maggio 2011
Il numero civico 34 di via D’Azeglio occupa lo spazio di una porta a vetri a due ante.
Da poche settimane su quella porta è affisso il cartello ‘Affittasi’, ma per oltre mezzo secolo il marciapiede antistante è stato ingombro di biciclette: indizio inequivocabile che all’interno si svolgeva qualcosa di particolare.
L’interno l’ho frequentato per circa una trentina d’anni, con cadenza periodica e costante. Pochi metri quadrati, resi ingannevolmente più ampi dagli specchi presenti sul lato sinistro, a destra alcune sedie, al centro due poltrone tipiche.
Ma il vero contenuto di quell’esiguo spazio non erano gli arredi, erano la ricca umanità delle persone che lì confluivano. Ed è di questo che vorrei raccontare.
Si potrebbe pensare che da Felice e dal fratello Bruno ci si recasse per tagliarsi i capelli o per farsi la barba: è vero, ma è anche falso; perché in quei pochi metri quadrati a volte ci si poteva trovare anche in 7-8 persone, ma generalmente meno della metà dei presenti era lì per i capelli, molti erano di passaggio per scambiare idee, per rilasciare opinioni. Anche chi era lì per una ‘accorciatina’ in realtà era molto più interessato a discutere che a tagliarsi i capelli, come se la necessità del taglio fosse un semplice pretesto.
Il locale di Felice non iniziava e non finiva nelle sue quattro mura, ma si prolungava sulla via. Via D’Azeglio faceva parte del locale: ciò che passava nei due sensi, dal marciapiede vicino e da quello lontano (oltre la strada), era strettamente collegato a quello che succedeva all’interno.
Era infatti un continuo salutare, a volte con il semplice sguardo, altre volte con un movimento di braccia, spesso con saluti verbali, esclusivamente in dialetto.
Tra un saluto e l’altro non c’erano pause, perché subito tutto ritornava all’interno sotto forma di commenti, e si riprendeva così il filo del discorso. Il filo del discorso, appunto. E questa la vera attività che per tanti anni si è svolta in quel piccolo locale. Di cosa si parlava? Sarebbe più semplice elencare di cosa non si parlava.
Si parlava di storia (di Parma), di musica (lirica), di sport (calcio, ma anche ciclismo), di cucina (parmigiana), di politica (quella vera che coinvolge e interessa la gente). I commenti potevano partire dalle notizie della Gazzetta (che faceva parte dell’arredo al pari di pettine e forbici) oppure da altri fatti di cronaca e notizie che entravano portate da amici e conoscenti.
Attendere il proprio turno era un piacere, non era possibile annoiarsi, quasi sempre era un’occasione per apprendere e conoscere cose nuove e storie vere. Il tempo del taglio era generalmente breve (perché l’operazione era sempre essenziale), ma poteva allungarsi in base alle soste alle quali Felice era obbligato per salutare i passanti o per enfatizzare una parola (a volte per sottolineare un’intera frase particolarmente significativa, soprattutto quando la discussione si accendeva e si creavano fazioni tra i presenti).
Ogni argomento e ogni discorso erano importanti e coinvolgenti: la (vera) ricetta dello stracotto degli anolini si collocava sullo stesso piano del restauro del Battistero, la politica sanitaria nazionale non riusciva a superare per importanza le prime note incerte del Rigoletto della sera precedente.
In questi anni ho imparato tanto da Felice e da Bruno e da tutti gli altri frequentatori (la parola cliente in questo contesto sarebbe veramente ridicola); ho imparato che le persone sono tutte importanti, anche se il loro successo sociale e professionale può essere molto diverso; ho imparato che lo scopo del nostro vivere sociale è fatto di relazioni, di relazioni vere e sincere; ho imparato che scambiarsi idee e opinioni è una ricchezza che non ha prezzo.
Ho imparato che la città per vivere ha bisogno di questi luoghi, che la strada e i negozi devono parlarsi continuamente attraverso le persone che li vivono. Ho imparato che nessun centro commerciale con tutti i suoi lustrini potrà mai regalarci l’umanità che Felice sapeva trasmettere in quei pochi metri quadrati.
Penso con rimpianto a cosa significa quel cartello ‘Affittasi’, penso ai giovani che non possono sapere cosa hanno perso in quella porta a vetri che ha dovuto chiudersi per sempre.
Qualche realista osserverà che è una situazione inevitabile, che tutto passa e che comunque si deve andare avanti. Va bene, però mi rimane sospesa una domanda: ‘tutto questo che termina, con cosa pensiamo di sostituirlo?’
Alessandro Volta