Tag

, , ,

JERUSALEM

DSC_0291

E’ passato circa un mese dal viaggio in Palestina, i ricordi hanno iniziato a stratificarsi, le scorie sono cadute sul fondo, mentre le cose leggere sono salite in superficie. Il nucleo dell’esperienza, anche se ancora in corso di definizione, sembra aver già preso la sua forma definitiva; è quindi il momento di fissare alcune idee, un po’ per non dimenticare e un po’ per condividere con gli amici.

Non mi interessa una valutazione oggettiva di quanto visto, al contrario desidero descrivere sentimenti ed emozioni del tutto soggettive e personali, e quindi opinabili. Sono consapevole che i miei giudizi sono in buona parte condizionati dalla lunga attesa che ha preceduto questo viaggio e dal momento della mia vita nel quale questo viaggio si è realizzato, cioè la soglia dei cinquant’anni.

(Ovviamente non mi interessa commentare la parte turistica del viaggio, per questo bastano le foto e il materiale portato a casa).

L’esperienza di questo pellegrinaggio è personale ma è stata vissuta con colei che ha condiviso con me gli ultimi trent’anni di vita ed è stata arricchita dalla presenza dei due figli più grandi; è a causa loro che questo viaggio ha dovuto attendere tanto (quando erano piccoli non era possibile progettare un periodo di assenza così lungo in un luogo tanto lontano). Valeva senz’altro la pena aspettare e condividere l’esperienza con loro; nei prossimi anni qualcosa della Terra Santa verrà a galla e potrà rappresentare un fertile terreno comune. Sono certo che nei figli questo viaggio maturerà più avanti, quando le vicende della vita faranno riaffiorare emozioni e sensazioni. La speranza è che almeno loro possano ritornare e rivivere quei luoghi in maniera più personale e coinvolgente. Chissà, forse qualcuno di loro potrà anche lavorare e operare in quei luoghi….

Il Don che ci ha accompagnati è anche colui che ci ha sposati, che ci conosce fin dall’inizio del nostro cammino, con lui abbiamo condiviso nascite e battesimi. Gli amici scout presenti hanno poi reso più preziosa l’esperienza; la sintonia precedente al viaggio e le idee già condivise hanno trovato così altra linfa di cui nutrirsi per il futuro.

Sono partito curioso e senza pregiudizi, interessato a capire i problemi socio-politici di quella terra e assimilare la religiosità di quei luoghi. Non mi ha mosso alcuna necessità di conferma della mia fede, anzi il timore era di cadere in qualche forma di ‘feticismo religioso’, o di cogliere solo la superficie dei luoghi e della loro storia. Alla partenza c’era però la speranza di ‘sentire’ Dio più vicino, di riuscire a ‘vederlo’ da una prospettiva diversa dal solito. Il desiderio di questo viaggio era molto forte, ma l’aspettativa volutamente bassa e contenuta, probabilmente per evitare possibili delusioni o a causa di precedenti esperienze di luoghi sacri risultati in definitiva poco significativi.

Una prima immediata riflessione è che quei luoghi non hanno nulla a che fare con altri luoghi a valenza spirituale; quella terra mi è parsa impregnata di religiosità, laggiù ho sentito come l’uomo e Dio per lunghissimi secoli hanno cercato di comunicare e di comprendersi vicendevolmente. Soprattutto a Gerusalemme colpisce come, praticamente in un chilometro quadrato, vi siano gli elementi fondanti di tutte le religioni monoteiste presenti nella storia dell’uomo.

Perché proprio in quel luogo? Non saprei dire, ma laggiù è iniziato questo dialogo fecondo che ha dato origine a diversi percorsi: sull’unico ceppo ebraico-abramitico si è innestato il mistero del Dio che si fa Uomo e poco dopo la vicenda dei Mussulmani con il loro ‘nuovo’ profeta.

Per tutti quel luogo è sacro e per tutti quel luogo deve rappresentare la sorgente alla quale recarsi almeno una volta nella vita. Come per gli Islamici anche per i Cristiani il pellegrinaggio in Terra Santa dovrebbe diventare un obbligo morale e una attrattiva irresistibile. Il passaggio all’età matura dei 18-20enni dovrebbe essere segnato da un periodo trascorso a camminare, riflettere, lavorare, pregare in quei luoghi; queste attività in qualunque altro posto produrrebbero effetti decisamente meno significativi.

Ho percepito in quei luoghi una religiosità ‘obbligata’, non eludibile; ho sentito che là non ti è permesso dimenticarti di Dio, là con Lui in qualche modo devi fare i conti. Ritengo che questo ‘sentire’ non dipenda dalla suggestione prodotta dal pellegrinaggio, piuttosto credo che queste sensazioni siano l’effetto della lunga e articolata storia che ha attraversato quella terra. Il rapporto tra Dio e l’uomo non è teorico o astratto, ma è legato a luoghi e vicende precise, che passano attraverso tutti gli individui che ci hanno preceduto; gli stessi contenuti della Bibbia (così come quelli del Corano) sono il prodotto della mente e del cuore di uomini che si sono interrogati e che hanno dialogato con quel Dio che sentivano dentro e fuori di loro.

In Terra Santa ho respirato questo lungo dialogo dell’uomo con Dio e di Dio con l’uomo. Anche in altri luoghi questo è possibile, ma laggiù è cosa immediata e naturale, non occorre sforzo ne esercizio, è sufficiente liberarsi dai soliti schemi e pregiudizi e lasciarsi coinvolgere dal luogo fisico e dal luogo temporale.

La Terra Santa, ora lo so, per me è stato questo: un luogo fisico che diventa luogo temporale. Uno spazio fisico del pianeta dove qualcuno o qualcosa ha deciso che lì Dio e l’uomo in qualche modo si incontrassero, una specie di porta di comunicazione tra il sotto e il sopra, tra il fuori e il dentro; uno spazio fisico del pianeta che nella storia ha continuato a svilupparsi senza interruzioni: Abramo, esodo, terra promessa, profeti, Cristo, romani, cristiani, bizantini, mussulmani, crociati, turchi, francescani, ancora mussulmani e ancora ebrei con Israele; ho saltato molti passaggi, ma solo per dire che la storia di quei luoghi è la storia dell’uomo e alla fine anche la storia di Dio.

Quante volte mi sono chiesto se Dio partecipa veramente alla storia dell’uomo; in Terra Santa la risposta sembra ovvia, Dio c’è, è lì, anche se a modo suo, con interventi che solo il mistero è in grado di comprendere pienamente; laggiù Dio è presente nell’uomo, nell’uomo intero comprensivo delle sue contraddizioni e assurdità. La storia di Terra Santa è piena di sangue; anche prima e dopo la Croce quei luoghi hanno grondato sangue e ancora oggi là si soffre, si produce e si subisce violenza.

Per tutto questo laggiù religione e società sono strettamente intrecciate; la spiritualità con tutte le sue regole e prassi appare direttamente collegata alla politica e alla realtà civile. Per il nostro attuale modo di vivere ‘laico’ tutto questo può sembrare retrogrado e pericoloso, ma oggi sento nostalgia per un luogo dove poter essere uomo politico e uomo religioso allo stesso tempo, e senza alcuna contraddizione; un luogo dove è normale discutere e cercare soluzioni civili, ma al contempo inginocchiarsi o appoggiare la mano a un muro per chiamare e interrogare Dio; un luogo dove Dio è così importante che per lui si può morire e (purtroppo) uccidere.

In quel luogo ancora ci si odia soltanto perché non si è capaci di accettare e rispettare i sentimenti e le idee dell’altro. Quella terra incarna la vera scommessa dell’uomo: se laggiù si riuscirà a trovare un equilibrio per convivere e rispettarsi allora ci sarà speranza per ogni altro angolo del pianeta.

Laggiù non si trova una soluzione alla convivenza perché ognuno continua a vedere soltanto il proprio pezzetto di storia e di vicenda umana; il grande sforzo di osservare la storia dall’alto porterebbe a riconoscere l’unico disegno e permetterebbe di accettare i tanti modi di vivere questo disegno.

Padre Giorgio, con molto realismo e dall’alto della sua lunga frequentazione di quei luoghi, ha dichiarato che solo nella Gerusalemme celeste sarà possibile trovare la pace. Probabilmente ha ragione lui, ma voglio continuare a credere che un modus vivendi pacifico sia possibile e che tutta questa gente che prega qualche effetto positivo alla fine riuscirà a produrlo.

Padre Giorgio è stata la sorpresa del viaggio e senza la sua guida non avremmo potuto spaziare tra il presente e il passato con tanta facilità e velocità. Un’altra riflessione è dunque che in Terra Santa bisogna portarsi la Bibbia, ma anche il biblista… Aggiungo, esagerando, che anche un esperto di Corano e di Talmud non guasterebbero, ma per questo probabilmente occorrerebbero tempi di permanenza molto più lunghi.

Quei luoghi per me sono stati pietra e terra, palme e ulivi, profili di colline e calanchi, vento e polvere, ma tutto questo è abitato da persone e da animali. Le persone non possono essere soltanto osservate, come le pietre, vanno incontrate e conosciute. Questo è il grande limite di un viaggio come il nostro, un limite che lascia la sensazione di incompiuto e alimenta il desiderio di tornare: non per vedere, ma per conoscere. Abbiamo avuto un assaggio di questo incontrando il parroco di Gerico (Padre Feras) e quello di Emmaus, due incontri brevissimi ma sufficienti per comprendere che il dialogo può schiudere orizzonti immensi e che solo in questo modo è possibile vedere al di là delle cose. La vicenda umana laggiù è ancora estrema, simile a quella dei secoli passati; ancora oggi in quei luoghi un profeta ha il diritto di urlare la propria disperazione o tentare di indicare la strada per il futuro. Penso a quanti Giobbe in quei posti manifestano di notte il loro disappunto a un Dio che sembra non concedere o che pare insensibile alla disperazione.

In ginocchio davanti alla mangiatoia di Betlem o sulla pietra del Golgota le riposte a queste domande lentamente si sono fatte più nitide. Qui, dove ora tocco, il Dio fatto uomo è venuto alla luce, lui che è luce e porta la luce all’umanità in questo luogo è nato faticando e soffrendo insieme a sua madre; la nostra fede conosce e sperimenta un Dio bambino che, pur nella sua onnipotenza, non ha potuto rinunciare ad una madre, una donna che con la sua incondizionata disponibilità e dolcezza lo amasse e lo accudisse. Laggiù ho pensato al piacere di Dio che succhia la vita dal seno di sua madre, e ho pensato a quella donna amata come solo un bambino può amare.

L’altra risposta è nella croce e nella sofferenza fisica e morale che Cristo ha voluto vivere per essere completamente uomo. Più del sepolcro è il luogo della Croce che mi ha emozionato, lì ho risentito le parole: ‘tutto è compiuto’, proprio in quel luogo tutto finalmente si realizzava ed era per sempre, allora come oggi.

 Nazareth ha portato l’idea e la sensazione del tempo ordinario, della chiamata e dell’incontro con Dio che privilegia il giorno ‘feriale’. Maria è intenta a svolgere mansioni banali, da casalinga, tanto tempo per raccogliere l’acqua e con due stoviglie è già terminata e bisogna ricominciare; in questa banalità riceve la proposta più sconvolgente che si possa immaginare, in grado cambiare la sua vita e quella di tanti altri. Nell’annunciazione non c’è solo la chiamata, c’è Dio che si incarna, che feconda Maria annidandosi in lei, per iniziare a nutrirsi di lei, e con lei e da lei iniziare ad assimilare e far propria l’umanità.

E a pochi chilometri l’umanità di Cristo ormai matura decide, senza apparente motivo, di trasfigurarsi. Così siamo andati anche noi a vedere cosa si osserva dal monte Tabor. Lassù si vede lontano, lassù sembra che la pianura di Galilea cerchi di toccare il cielo. Cristo trasfigurato è quanto la nostra fede ci promette per quando verrà il momento; la nostra parte terrena e corporea rimarrà ma si modificherà diventando adeguata alla realtà divina. Anche noi come Cristo potremo chiacchierare con i profeti (e quindi con Dio), seduti sul cucuzzolo del Tabor; staremo così bene che avremo voglia di costruire una tenda per non dover più scendere…

Una volta scesi a valle, seduti in silenzio sulla barca al centro del lago di Tiberiade, abbiamo osservato il profilo delle colline, lo stesso che probabilmente ha visto Gesù. Attorno a quel lago sono avvenuti la maggior parte dei miracoli e degli insegnamenti, quel luogo è stato scelto per la predicazione e lì sono stati individuati i compagni, gente poco importante e poco istruita, ma piena di sentimenti e passione.

Perché quel lago anonimo e non la grande città, ad esempio Jerash dove passava il mondo? Gesù in quel luogo ha sperimentato la Chiesa e ha creato il nucleo che diventerà il Cenacolo, ha scelto un luogo ‘feriale’, come quello in cui è nato. Solo per la morte ha scelto il palcoscenico della Città. Il resto del compito l’ha lasciato al suo ministro degli esteri, Paolo da Tarso, che ha ricevuto l’incarico quando ormai i giochi erano fatti.

Ma abbiamo detto che in Terra Santa è concentrato tutto il monoteismo del passato e del presente. E così non posso dimenticare il canto-preghiera del muezzin che cinque volte al giorno mi ha ricordato che Dio esiste: ‘Dio è grande, non esiste dio se non Dio’. Mi manca questa voce che mi ricorda che se vivo lo devo a Lui, che mi ricorda che devo vivere per Lui. Il muezzin utilizza la cantillazione cercando di produrre vibrazioni ed emozioni che arricchiscono di significato la semplice parola. Quella dal minareto è una bella preghiera che rende presente il divino nel contesto quotidiano; anche se sono intento a lavorare e non sto pregando, il cantico viene proclamato anche per me. E’ una preghiera per la collettività che non si chiude in una chiesa, ma che viene sparsa nell’aria sopra le case affinché possa ricadere su tutti.

Mentre visitavamo le rovine di Jerash ad un certo punto il minareto ha chiamato; due turiste mussulmane, giovani donne con tanto di bambini al seguito, si sono appartate dietro ad un muro e si sono messe a pregare con discrezione a voce bassa, alternando le genuflessioni di rito. Erano lì per turismo come noi, ma questo non ha impedito loro di pregare Dio al momento opportuno.

 L’altra forte suggestione è arrivata dal Muro del Tempio. La parte esterna, divisa per uomini e donne, è identica a quanto già visto in fotografia o in televisione. Le mani o la fronte appoggiano sulla pietra, ma il cuore è tutto per Dio, il Dio degli ebrei che sa essere buono ma anche irascibile. La pietra del muro è antica ma è muta, è l’uomo con la sua vita e la sua storia che la rende viva, e oggi gli ebrei si alternano per rendere vivo il muro con la loro preghiera; quel muro è il loro tempio e solo in quel luogo possono trovare la ‘porta’ che li introduce al cospetto di Dio.

Sul lato sinistro il muro prosegue all’interno di un antico portico, dove possono accedere soltanto gli uomini. Entrando, a destra c’è il muro e a sinistra sono collocati lunghi scaffali di libri prevalentemente antichi (sono presenti anche antichi rotoli). E’ stato emozionante vedere tanta gente pregare quei libri, dondolando e coprendosi il capo e le spalle; nessuno di loro studiava quei volumi, semplicemente li pregavano, tenendoli vivi. Non tutti quegli oranti erano vestiti alla maniera ortodossa, alcuni erano in jeans, ma la loro preghiera era comunque intensa e concentrata; qualcuno pregava i rotoli antichi, srotolandoli e mantenendoli sotto lastre di vetro per non rovinarli. Mi ha impressionato questa preghiera diretta, senza alcuna mediazione sacerdotale, mediata solo dal testo e dal libro tenuto in mano.

 Questi ebrei, pur con i loro difetti e a volte la loro arroganza, sono in realtà ancora oggi i nostri Padri; da loro credo che abbiamo ancora molto da imparare, invece per secoli abbiamo cercato di convertirli alla nostra fede; in quel portico ho capito che è più facile convertire un cammello che un ebreo.

L’impressione del Muro fa il paio con l’altro muro, quello che il governo di Israele ha costruito attorno a Betlem e alle altre città per loro scomode. Un muro grigio e triste che annulla il loro Muro del tempio: così troviamo insieme il muro lungo e basso che divide e il Muro corto e alto che doveva unire l’umanità a Dio….Il recente anniversario della caduta del muro di Berlino ci ricorda quanto è facile e veloce la costruzione di un muro e quanto invece è lungo e difficile abbatterlo; chissà se nella mia vita, dopo quello tedesco, avrò la gioia di vedere cadere anche quello di Palestina.

 Ma il ricordo con cui voglio chiudere queste riflessioni del viaggio è molto più positivo. E’ l’immagine della porta della Basilica della Natività, una grande basilica con una piccolissima porta dove occorre chinarsi per entrare. Dicono che il motivo dipenda da criteri di sicurezza, per evitare di entrare con armi, cavalli o eserciti; per me invece significa che per entrare dove è nato un bambino, il Dio Bambino, bisogna farsi piccoli, nel corpo e nello spirito, per riuscire ad amare e meravigliarsi come un bambino.

­­­­­__________________

Festa dell’Immacolata, 2009

DSC_0434