L’esistenza come noi la percepiamo è definita dalla dimensione dello spazio e del tempo; la morte al contrario ci appare come il nulla privato dello spazio e del tempo.
Non è pensabile uno spazio infinitamente dilatato o un tempo privo di un inizio e una fine, e comunque, se ciò fosse, non sarebbe più vita come noi la consideriamo e la pensiamo.
Se la morte è caratterizzata dalla mancanza di spazio e di tempo, essa non sembra dissimile dall’eternità dove non può esserci né inizio né fine, e dove non è concepibile alcuno spazio.
In questo senso morire significa divenire eterni e l’eternità, essendo un superamento delle dimensioni dell’attuale esistenza, dovrebbe essere considerata una normale tensione dell’uomo (l’uomo anziché fuggire la morte ne dovrebbe avvertire una vera e propria attrazione).
L’uomo, nei momenti di rischio o di follia, quando è reso ubriaco dalla gloria o dal pericolo, quando sente fisicamente il proprio spirito o quando sente vicino il respiro di Dio, può sentire la morte amica, non pericolosa né avversa.
E’ quando non si ha nulla da lasciare, perché ci si è staccati da tutto, che è possibile superare (‘saltare’) il limite della propria umanità.
Percepiamo questa vita, ma non sappiamo nulla del prima e del dopo. Non è possibile che un’eternità simile a quella che si desidera abbia preceduto questa vita? E perché alla fine di questa vita non potrebbe seguire un’esistenza con tempi e spazi nuovi? Ma se così fosse che senso avrebbe un ciclo esistenziale simile al precedente: un’infinità di cicli finiti non possono costituire l’eternità.
Se l’uomo ha una tendenza innata alla morte perché non dovrebbe accelerare i tempi provocandosi la morte e prendersi subito l’infinito?
Così facendo però perderebbe la possibilità di comprendere il motivo profondo per il quale ha iniziato a vivere, l’inizio della sua vita infatti non è stato un suo atto volontario né egli ha potuto impedirlo.
L’uomo ha iniziato a vivere lo spazio e il tempo suo malgrado per cominciare un cammino che lo conducesse (e lo ammettesse) al superamento dello spazio e del tempo, non potendo evidentemente iniziare subito l’eternità che per definizione non possiede un inizio.
Il superamento dello spazio e del tempo è raggiunto in senso assoluto solo al momento della morte, ma già in vita è possibile vivere frammenti di eternità.
L’eternità è presente in ogni azione e in ogni pensiero profondamente veri, completamente sinceri, assolutamente essenziali, privi cioè di vincoli con il tempo e con lo spazio.
Eterne sono le idee vere in senso assoluto, slegate cioè dai pensieri precedenti e da quelli successivi; queste idee non richiedono un presente né un’applicazione razionale, nascono da noi ma non ci appartengono, e sono molto più importanti di noi; esse costituiscono una verità che non necessita dell’uomo.
Allo stesso modo eterne sono le azioni svincolate dalle mani di chi le produce, quelle azioni prive di un legame con la materia che utilizzano, sembrano prodursi in se stesse e in sé sembrano esaurirsi.
Azioni e pensieri eterni possono essere presenti nella vita di ogni uomo, ma sono al di là dell’uomo che li vive; spesso (il più delle volte) sono prodotti in modo inconscio, qualche volta possono essere voluti, ma quasi mai sono in grado di cambiare la vita.
E’ probabile che azioni e pensieri eterni in quanto tali possano derivare sia da situazioni positive che da situazioni negative (secondo una considerazione umana), ma ciò non dovrebbe comunque ostacolare la loro realizzazione.
In quest’ottica l’uomo dovrebbe desiderare la morte, attendendola con pazienza e speranza, tentando di viverne schegge e primizie già in vita, per iniziare già ora ad assaporare l’eternità e prepararsi così ad una nuova dimensione senza limiti.
Ogni individuo, solo perché vive, è destinato a divenire eterno? qualunque sia stata la sua vita? Non sembra plausibile.
Forse chi non ha compiuto il necessario cammino di redenzione dalla vita non potrà liberarsi completamente dallo spazio e dal tempo e dovrà continuare a subirne i limiti e i legami; forse continuerà a vivere numerose vite finite desiderando l’infinito.
Così l’uomo vero e saggio raggiunge l’eternità attraverso la morte –cioè attraverso la parte più mortale della vita-; in questo senso la morte è parte della vita.
Chi teme la morte invece è incapace di vivere l’eterno; l’uomo completamente legato alla propria vita è più materia che essere, e sarà destinato a rimanere tale.
Chi sperimenta pensieri e azioni eterne può conoscere e desiderare l’infinito.
L’uomo che sa staccarsi dalla vita e dalle sue varie componenti ha già iniziato a vivere l’eternità, qui, ora.
Questa eternità che ci chiama a partecipare dell’infinito è colei che ci ha voluti. Questa eternità ha il nome di Dio; l’apporto di noi stessi lo dilata e ne aumenta la pienezza.
Iniziandoci alla vita Dio ci obbliga a questo cammino di sublimazione della nostra dimensione finita, questa dimensione di spazio e tempo che essendo negazione di eternità diventa negazione di Lui.
Questo cammino della vita diventa necessario poiché Dio, pur amandoci totalmente, non può introdurci direttamente alla sua eternità non potendo far nascere il sé da sé.
Ci troviamo così nella piacevole contraddizione di dover attraversare la vita tentando continuamente di superarla.
E’questo l’unico suicidio che ci è permesso, morire a noi stessi per vivere veramente, morire continuamente alla nostra vita personale per avere accesso all’infinito.