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Heidegger l’ha considerata “la domanda fondamentale della metafisica”. Nozick ne tenta una lunga e articolata risposta e osserva che se non siamo in grado di rispondere a questa domanda non riusciamo a rispondere a nessuna altra domanda: infatti “come possiamo sapere perché una cosa è (o dovrebbe essere) in un certo modo, se non sappiamo perché c’è qualcosa”.

La domanda è comunque da ritenere valida almeno per il motivo che non è possibile la domanda contraria: perché c’è il niente anziché qualcosa? Il niente per definizione non possiede attributi e pertanto non ha neppure la possibilità di interrogarsi sul perché c’è o non c’è. E’ evidente che, nel momento in cui ci poniamo questa domanda, definiamo che qualcosa c’è , ed escludiamo che non ci sia niente.

Se anche ammettessimo (o dimostrassimo) che quello che c’è è stato creato, prima che ci fosse qualcosa non poteva esserci il niente (c’era almeno colui o ciò che ha creato il qualcosa): dal nulla non può nascere nulla. Quindi, nel momento in cui c’è qualcosa, viene esclusa la possibilità che possa esserci stato, o potrà esserci in futuro, il niente. Altrimenti occorrerebbe ipotizzare un niente allo stato naturale che “attraverso una forza di nientità, nienti se stesso producendo qualcosa” (ancora Nozick).

Se il niente non esiste, e se il qualcosa che ci interessa giustificare non è l’antitesi del niente, ne deriva che la seconda parte della domanda “anziché niente” è del tutto inutile e può tranquillamente essere eliminata: è sufficiente chiedersi “perché c’è qualcosa?”. In questa fase del ragionamento è del tutto trascurabile definire cosa sia questo “qualcosa” (non ci interessa neppure chiarire perché il qualcosa ha questa forma e non un’altra), ci interessa invece comprendere il “perché” del qualcosa.

La nostra domanda quindi può ulteriormente essere ridotta e limitarsi al semplice “perché?”: in pratica  l’intraducibile termine sanscrito KA.

Nel momento in cui il “qualcosa” esclude il niente (e lo esclude da sempre), esso si situa in una condizione senza un inizio e senza una fine che non necessita di alcun “perché” che la giustifichi. Se il “qualcosa” della nostra domanda non dipende da alcun “perché”, esso risulta definito semplicemente dall’esserci, il dasein di Heidegger.

Si potrebbe concludere che la domanda iniziale possieda all’interno la sua risposta “c’è qualcosa perché non c’è il niente”, oppure che la risposta sia nella domanda girata in forma affermativa “anziché niente, c’è qualcosa”.

Ognuno di noi sperimenta costantemente che il qualcosa nel quale siamo immersi, e che noi stessi rappresentiamo, è costituito da elementi finiti (che hanno cioè un inizio e un termine) o destinati a completa trasformazione biochimica; è a questo livello che la domanda iniziale mantiene tutto il suo valore e ci stimola a considerare gli elementi profondi che caratterizzano il “qualcosa”.

Pertanto anziché chiederci “perché c’è qualcosa?” (l’esistenza del quale, abbiamo concluso, non necessita di un perché), può essere utile che ci domandiamo perché il qualcosa “universale” (nel senso di cosmico e globale) comprende il qualcosa “individuale” (nel senso di particolare e singolare). E la domanda potrebbe evolvere in: “perché questo qualcosa specifico, anziché un altro?”

Le singole componenti del qualcosa universale (io rispetto alla seggiola che mi sostiene) appaiono evidentemente in situazioni di coscienza molto differenti; eppure esiste ed è reale anche ciò che non giunge a domandarsi alcun ‘perché’ (per esistere non è infatti necessario porsi domande sulla propria esistenza).

La domanda iniziale “perché c’è qualcosa anziché niente?” diventa così una assoluta necessità affinché il “qualcosa” si interroghi sul significato di sé. Questo compito essenziale è affidato ad una modesta e limitata componente del qualcosa, la sua parte consapevole e interrogante: l’essere umano.

Senza la nostra domanda il qualcosa non sarebbe in grado di emergere dal niente e rischierebbe di trovarsi a coincidere con esso. Il brodo primordiale dell’universo (o se vogliamo della creazione) contiene fin dall’inizio il seme della propria coscienza, che ne giustifica l’esistenza. Il qualcosa universale ha iniziato fin dall’inizio un inesorabile e inevitabile processo che l’ha portato alla nostra attuale individualità e coscienza, così da giustificarsi e affermarsi come realtà esistente.

E’ questa la responsabilità che non possiamo rifiutarci di portare: se non noi, chi altro può accollarsi il peso del “perché universale” e giustificare che ci sia qualcosa anziché niente?