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Per un credente il concetto di ‘Paradiso’ è abbastanza facile da comprendere. Il Paradiso Terrestre nel racconto della Genesi è raffigurato come un ambiente felice nel quale si è svolta l’esistenza dell’uomo prima del peccato; in questo luogo l’uomo e la donna hanno vissuto in compagnia del Dio che li ha creati.

Questa immagine del Paradiso però è soltanto un’esemplificazione per rappresentare un luogo sconosciuto, definito appunto ‘terrestre’ e non ‘celeste’, e rappresentato con le caratteristiche del nostro mondo reale, semplicemente più bello. L’autore della Genesi non poteva rappresentare una realtà differente da quella sperimentata da lui stesso e da coloro ai quali il racconto era diretto, ma non possiamo certo credere veramente ad un giardino abitato da piante e da animali. Allora come immaginare e comprendere la realtà del Paradiso?

Innanzitutto pensandola come una realtà senza materia (almeno senza la materia fisica attuale), priva cioè del mondo e di ciò che contiene, una realtà costituita dal solo pensiero e da tutto ciò che definiamo metafisica o metarealtà (è decisamente improbabile che in Paradiso possa riformarsi il corpo che ci ha accompagnato nella vita terrena e che si è decomposto dopo la nostra morte). Tutto ciò che in noi non è materia invece è possibile (e per i credenti, fortemente probabile) che possa sopravvivere alla morte: mi riferisco al pensiero, ai sentimenti, alle idee, alla coscienza e alla consapevolezza di sé.

Nel racconto della Genesi viene sviluppata una profonda intuizione: è scritto che l’uomo è stato creato a immagine di Dio, nel senso che guardando l’uomo si può vedere Dio. In origine l’uomo e il creatore risultano entità in comunione tra loro, compenetrate e interdipendenti, in cui l’una definisce l’altra; li distingue soltanto l’essere-da-sempre o l’essere-dal-momento-della-creazione. Ma questi due esseri in cosa assomigliavano? Non certo nella barba o nella statura: somigliavano nell’essere pensiero che conosce se stesso. L’uomo ha raggiunto un tale livello di  consapevolezza da riuscire a compiere il peccato di superbia, cioè di  pensare se stesso non più come un essere creato, ma come un essere privo di dipendenza e di relazione con un altro da sé. E’ a questo punto del peccato che l’uomo, secondo il racconto, si sente nudo, ha freddo e deve coprirsi; è a questo punto che l’uomo diventa la creatura attuale: una mente pensante e consapevole di esistere rivestita da un corpo materiale che segue le leggi della fisica e della chimica.

Ma l’uomo fatto a immagine del suo creatore è sempre quello che ha preceduto il peccato e resta quello che abiterà il Paradiso dove pensiero umano e pensiero divino si riuniranno; creatura e creatore vivranno in armonia e piena sintonia, e la felicità sarà nel pensare e nel pensarsi senza i vincoli della materia.  Gli esseri creati concorreranno così a ri-costituire il Creatore, che sarà tale proprio a causa e per mezzo della relazione simbiotica con le sue creature. Con il disfacimento fisico del corpo, la nostra mente non potrà mantenere una vera e propria individualità, perché non potrà non confluire in Dio (nell’unica realtà eterna possibile). In Lui vivranno sia i credenti che i non credenti, perché il destino che legata l’esperienza terrena al diretto atto d’amore del Creatore appartiene a ogni individuo. Solo con  la morte e il termine della realtà fisica potremo dunque tornare all’armonia perduta con il peccato, ricongiungendoci definitivamente a Dio. Questo è il Paradiso che ci aspetta.

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Trovo invece difficile concepire un’idea di Inferno e individuare, nell’esistenza successiva alla realtà terrena, un posto per il dolore e la sofferenza dei dannati e dei perduti. In un’eternità priva di spazio e di tempo come è possibile pensare un luogo in cui esiste il male? Una tale realtà non farebbe che contaminare e, di fatto, impedire l’armonia e la perfezione dell’esistenza divina. Nel male dell’inferno confluirebbero gli esseri superbi e maligni, coloro che nella vita non hanno accettato di sentirsi creature e di comportarsi in quanto tali, coloro che per superbia e per egoismo hanno preferito vivere senza Dio. Il malvagio sarebbe dunque colui che non ha voluto accettare di essere oggetto dell’atto creatore di Dio e che non aspira a riunirsi a Lui nell’armonia primordiale.

Se la presenza dei cosiddetti malvagi impedisce, di fatto, la realizzazione dell’armonia originale, ne risulta altamente improbabile una loro collocazione nella realtà successiva a quella attuale. Tutto ciò che non sarà a immagine di Dio non potrà esistere, perché sarà possibile soltanto l’armonia e l’equilibrio concepito da Dio al momento della creazione. L’esistenza del male risulta dunque limitata alla nostra realtà terrena, dove possono coesistere realtà antitetiche come la materia e il pensiero.

Al di fuori di questa nostra esistenza non è pensabile uno spazio per il male, il quale terminerebbe in questa vita, perché è a questa realtà che da sempre il male è strettamente legato. Solo ciò che rimane in Dio potrà sopravvivere, e l’Inferno sarà proprio il non-essere-più, il non poter accedere alla nuova ed eterna realtà (oppure, come pensano i buddisti, tornare a vivere nel mondo sotto altre forme fino alla fine del mondo – ma questo non sposta i termini del problema).

Se il male prodotto dal mondo morirà con esso, l’uomo malvagio non verrà riconosciuto da Dio come sua creatura, perché la stessa creatura non è riuscita a  riconoscersi nel suo Dio. Dal punto di vista esistenziale il malvagio sparisce, perché la sua coscienza, priva della consapevolezza del rapporto con l’atto creativo di Dio, è già qui in vita in una condizione falsa e illusoria (potenzialmente cioè è già morta). Poiché il malvagio è consapevole soltanto della sua attuale esistenza fisica, il suo destino è di seguire la propria materia e dunque di terminare assieme ad essa.

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Se successivamente a questa vita può trovare posto soltanto ciò che è immagine di Dio e che a Lui confluisce, è piuttosto difficile pensare un luogo per gli esseri destinati al Purgatorio. Chi sarebbero costoro che non sono in armonia con Dio, ma che a lui sono destinati; in questo senso l’attuale realtà terrena non sarebbe già una forma di purgatorio? Non siamo qui per purificarci dal peccato di superbia e tornare nell’originale relazione con Dio? E’ pensabile un ulteriore Purgatorio per espiare i peccati successivi a quello dell’origine?

Trovo impensabile una realtà nella quale si attende di giungere in Paradiso, con la certezza che comunque prima o poi si riuscirà ad accedervi. Nel purgatorio inoltre si dovrebbe soffrire l’assenza o la lontananza da Dio, ma questo presuppone un concetto di spazio inconcepibile in un mondo diverso da quello attuale. E poi dov’è la sofferenza, sapendo che alla fine si giungerà alla perfezione e alla felicità? Il cammino verso Dio non è già di per sé motivo di felicità? Nel Purgatorio il percorso per giungere a Dio sarebbe già tracciato, privo quindi dei rischi che invece viviamo nell’attuale realtà nella quale non abbiamo alcuna certezza sull’esito finale.

Alla fine ciò che caratterizza il Purgatorio è proprio il tempo che ci separa dall’ingresso in Paradiso, ma come concepire l’idea di tempo in una realtà infinita? Inoltre la realtà temporale del purgatorio sarebbe di tipo finito, a termine, e dovrebbe esaurirsi quando l’ultima anima è giunta in Paradiso. Dall’Inferno non si può accedere al Purgatorio, ma da questo si può giungere al Paradiso, senza possibilità di percorsi a ritroso e tutto questo per l’eternità? Ne risulta una costruzione estremamente contraddittoria e, in definitiva, quasi offensiva per la nostra pur debole mente.

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Il mio intelletto, sostenuto dalla forza dell’anima, riesce invece a intendere che – in accordo con la rivelazione, per grazia e volontà di un Essere a me sovraordinato, a seguito della morte del corpo – la mia consapevolezza di esistere potrà confluire nell’idea di Colui che ha voluto la mia esistenza e che (almeno inizialmente) l’ha voluta a immagine della sua. Con Lui potrò continuare a pensare me stesso per l’eternità, ma mi penserò nuovo rispetto ad ora, perché in Lui troverò la mia vera immagine, quella originale che ora mi è dato solo di intuire.