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chagall33

Un intellettuale ateo contemporaneo definisce scandalosa la questione della teodicea cristiana. Giustificare Dio rispetto al male presente nel mondo, se per un ateo è motivo di scandalo, per un credente è quanto meno causa di inquietudine. Confrontarsi con il male e l’imperfezione presente nella nostra realtà terrena, lungi dall’avere un valore consolatorio, può rappresentare un cammino efficace per conoscere Dio nell’esperienza dell’esistenza individuale e collettiva.

Secondo il citato intellettuale ateo, il presunto scandalo risiederebbe nelle risposte alla teodicea fornite dai filosofi e dai teologi cristiani; in particolare viene definita insostenibile (nel senso di troppo facile ed elusiva) l’idea di Plotino e Agostino di considerare il male come semplice assenza di bene e pertanto un non-essere. Effettivamente gli occhi visti da Wiesel nel bambino impiccato ad Auschwitz, incapace di capire cosa gli stava succedendo, sono difficilmente definibili un non-essere o un’espressione del nulla in quanto assenza del bene divino.

Per molti credenti il male (come altri aspetti religiosi) non è comprensibile, è un mistero che solo Dio conosce, un mistero di fede nel quale ciò che è male viene trasformato da Dio in un bene ancora maggiore. A mio avviso però, neppure l’uomo di fede può accontentarsi di una simile risposta; è necessario tentare di comprendere il male individuale e collettivo che, anche se non  voluto da Dio, è comunque da Lui permesso. Non possiamo accettare l’accusa di eludere o di rimuovere una domanda così fondamentale: riuscire a comprendere il significato del male che subiamo (o che produciamo) può condurci più avanti nella conoscenza sia di noi stessi che di Dio.

Un primo passo che ritengo essenziale è distinguere nettamente tra il male naturale, connesso strettamente al creato, e il male prodotto intenzionalmente e liberamente dall’uomo (l’unica creatura che nel nostro pianeta possiede tale libertà). Il male fisico presente nel mondo è il semplice e automatico effetto delle leggi fisiche e biologiche che regolano questa realtà terrena; le leggi di natura, dopo l’iniziale atto di volontà creatrice di Dio, si sarebbero sviluppate con modalità spontanee secondo le regole della necessità e della selezione utilitaristica (trovo difficile, e un po’ ridicolo, pensare a Dio che con calcolatrice e testi di astrofisica programma terremoti o progetta la genetica della nostra evoluzione). Mi sembra dunque inutile e fuorviante domandarsi qual’è il significato dei terremoti o delle alluvioni, o il senso della violenza nel mondo animale, il perché delle malattie e delle morti premature, o il motivo del dolore fisico.

Rischiamo di diventare addirittura blasfemi quando arriviamo a considerare una malattia, o un qualunque accidente, conseguenza di una punizione divina. Il terremoto di Lisbona o il recente tsunami in Asia non possono essere stati direttamente programmati e voluti da Dio, e l’incidente mortale di un giovane è di solito causato dai freni, dall’asfalto o dall’alcool. Nella valutazione di episodi di questo tipo è utile, a mio avviso, un atteggiamento parzialmente fatalista nella misura in cui le conoscenze scientifiche ce lo permettono. Per interpretare cioè molte nostre vicende personali e collettive non serve interrogare la religione, è meglio scomodare la scienza; ritengo che dall’illuminismo ad oggi le scienze umane abbiano avuto la grande funzione di spiegare buona parte della nostra condizione, così da limitare il campo della religione a quanto non può essere compreso dalla nostra mente.

Già Copernico e Galileo erano riusciti a limitare l’ambito religioso separandolo dall’astronomia (per il pensiero di allora avevano invece invaso il campo della religione inquinandolo con una interpretazione umana). Allo stesso modo oggi l’astrofisica che indaga sull’origine dell’universo, la fisica delle particelle che studia la materia al suo interno, la genetica che sperimenta la vertigine della creazione, la medicina che cerca (e in parte trova) il benessere e l’allungamento della vita umana, non vanno interpretati come tentativi dell’uomo di sostituirsi a Dio, ma applicazioni del dono divino fatto all’uomo di pensare ed agire liberamente nella propria dimensione esistenziale. Rimane alla fine ugualmente un immenso spazio che l’uomo non può conoscere, all’interno del quale non è in grado di agire (e sono tanti gli scienziati che hanno segnalato con onestà e consapevolezza questo limite). Alla fine, attraverso la costante possibilità della nostra morte e l’esperienza del limite della nostra fisicità, in ogni momento della nostra vita abbiamo la possibilità di avvertire il confine dell’esistenza. La malattia (nostra e degli altri), anziché una punizione divina o una ingiusta sfortuna, andrebbe considerata una dimostrazione costante della nostra imperfezione e, di conseguenza, dello spazio che la scienza lascia a Dio.

Nonostante quanto detto fin qui, è ugualmente utile e opportuno chiede a Dio minori sofferenze e maggiore benessere; colui che si sente opera di un atto d’amore del creatore sperimenta quotidianamente la presenza buona di Dio e riesce a sentirsi in rapporto con Lui anche e soprattutto nella sofferenza e nella difficoltà;  non possiamo però chiede a Dio di impedire la moltiplicazione metastatica delle nostre cellule o considerarlo direttamente responsabile se ciò avviene.

Se Dio fosse la causa diretta di ogni aspetto della nostra realtà, come potrei comprendere il senso di un neonato che muore a poche ore di vita o di due gemelli che nascono uno sano e l’altro con gravi malformazioni? E perché un fratello muore a vent’anni per incidente stradale e l’altro muore serenamente a novant’anni? Perché durante una calamità mille muoiono e uno solo si salva? La risposta non può essere nella fortuna o nella sfortuna, in Dio o nel destino, nel caso o nella necessità. La risposta è, a mio avviso, nella finitezza e nel limite della nostra realtà (non solo nostra personale, ma anche di tutto il creato). E’ proprio questa nostra finitezza a delimitare e a definire Dio.

In base a questa idea Dio non è direttamente presente nella storia come l’autore che decide dove far piovere o chi fare ammalare, come l’unico responsabile di tutto ciò che accade. Dio sarebbe nella storia dell’uomo attraverso l’uomo (è appunto attraverso il Cristo-uomo che si fa conoscere e sperimentare nella storia). La responsabilità di Dio è presente nell’atto di creare (o non creare) l’uomo e di crearlo in un certo modo (consapevole e libero di pensare e agire). Il resto della storia è fatto dall’uomo con e senza Dio. L’uomo, creatura consapevole della propria somiglianza con Dio, aiutato dall’azione fisica ed esistenziale di Cristo (Dio incarnato), permette a Dio di partecipare alla storia del mondo.

Veniamo ora ai possibili significati del vero male, quello prodotto e voluto intenzionalmente e liberamente dall’uomo malvagio, e permesso da Dio. Innanzitutto chiariamo che la scelta volontaria del male non può essere di Dio; nessuna religione può concepire un Dio malvagio che crea per provocare sofferenza (un tale Dio può essere concepito  soltanto nella mente di un uomo malvagio che vuole giustificare e scagionare se stesso). Su questo pianeta soltanto l’uomo può scegliere tra il bene e il male, a lui solo è concessa la libertà e la capacità di pensare. Per questo tra tutte le creature è quella più simile a Dio (è immagine di Dio, senza essere Dio).

La nostra riflessione rischia di  complicarsi se leggiamo alla lettera il racconto biblico, nel quale l’uomo buono e perfetto dell’Eden ad un certo momento compie il peccato di superbia disobbedendo al creatore; abbiamo quindi un prima e un dopo il peccato, e un episodio nel quale l’uomo (ingannato dal maligno e quindi quasi inconsapevole e incolpevole) produce il primo grande peccato, produce il male. Il racconto biblico è necessariamente antropomorfo, e se tale non fosse non sarebbe stato né compreso alcuni millenni orsono né sarebbe arrivato fino ad oggi. Questo racconto però non è direttamente dettato da Dio, è soltanto da lui ispirato, e pertanto è possibile e lecito uscire da una lettura letterale.

Se usciamo dall’episodio umanizzato lasciamo il tempo del prima e del dopo il peccato, lasciamo il serpente tentatore (un essere malvagio esso stesso creato da Dio?), usciamo dall’uomo che disubbidisce (come un bambino tentato dall’adulto che gli vieta qualcosa di bello), usciamo dal peccato commesso da uno per tutti (la colpa che ricade collettivamente sulle generazioni successive), abbandoniamo la rottura del rapporto con Dio (del Dio in collera), evitiamo la trappola del castigo e della punizione (da quel momento lavorare per l’uomo e partorire per la donna è motivo di sofferenza).

Il racconto biblico ha lo scopo di giustificare il male e la sofferenza, attribuendone la responsabilità ad una azione volontaria dell’uomo e assolvendo Dio che per somma giustizia non può evitare alla sua creatura la conseguente punizione. L’episodio tenta cioè di giustificare la finitezza dell’uomo e dare conto della sua difficoltà a relazionarsi con un Dio invisibile ed eterno. Uscendo dal racconto possiamo concepire l’uomo del tutto differente dalle altre creature, più simile al suo creatore, libero di decidere e con un certo potere sul resto del pianeta. Simile al creatore, ma non uguale, pertanto finito, limitato dal tempo e dalla materia che lo costituisce, inserito all’interno delle leggi di natura, ma privo di un istinto regolato a priori; limitato e finito, ma libero di pensare, consapevole di esserci, con la possibilità mentale di uscire dal tempo e dallo spazio, con il potere di scegliere e di decidere, di muoversi e agire secondo volontà. 

In tutto questo c’è già il bene e il male. L’uomo è fin dall’inizio bene e male. E’ bene in quanto simile a Dio, è male in quanto diverso da Dio.

Dio quindi non crea il male o il bene; Egli dà origine al creato, che è bene, e poi crea l’uomo, un essere del tutto speciale, limitato e imperfetto (e in quanto tale con una componente di male), ma capace di pensiero (e pertanto simile a sé), attraverso il quale Egli conosce se stesso (se siamo a sua immagine siamo un po’ il suo specchio) e dal quale ama farsi conoscere e comprendere. Senza pensiero e consapevolezza l’uomo non potrebbe conoscere Dio; senza finitezza e imperfezione l’uomo non sarebbe diverso da Dio (sarebbe Dio e non più l’effetto della sua azione creatrice). Dopotutto vietare l’albero della conoscenza del bene e del male significava mantenere l’uomo imperfetto, e quindi mantenerlo nella posizione di creatura.

Da ciò deriva che il male -il peccato originale- non è da considerare un’azione diretta e consapevole del primo uomo, ma l’effetto stesso della sua natura imperfetta, imperfezione che  Dio stesso ha voluto. Per questo la colpa originale non è ereditata, ma posseduta da ciascuno in origine; quindi non peccato originale, ma colpa-costituzionale originale (una forma di difetto congenito). Secondo questa visione il male non può essere considerato un ente con esistenza autonoma (Satana), con personalità e volontà maligna. Accettare l’idea di un essere potente indipendente da Dio, significherebbe rendere Dio incompleto; il maligno sarebbe creato esso stesso da Dio o, in alternativa, Dio non sarebbe il creatore del tutto, e qualcosa si sarebbe creato da sé. Nella mia interpretazione, Satana non sarebbe l’entità che crea il male, ma sarebbe il male stesso, quella parte dell’uomo che si dedica al male, che vive la propria imperfezione opponendosi al bene che viene da Dio; sarebbe l’uomo che non riesce ad accettare la propria finitezza, la propria morte, la propria relazione creaturale con Dio.

Per un’ulteriore messa a fuoco del problema del male propongo di riflettere sul rapporto tra Cristo e il male.  Tra le religioni monoteiste solo nel cristianesimo la divinità si incarna facendosi uomo. Il nostro Dio che si fa uomo nasce (come ogni altro neonato) soffrendo i dolori del parto e muore soffrendo fisicamente sulla croce; il nostro Dio cioè accetta di vivere la realtà umana con tutta la sofferenza che questa realtà comporta. Oltre al male fisico Dio-Cristo sperimenta anche il male morale nelle tentazioni; come ogni uomo Cristo è tentato (non da Satana, ma dalla propria umanità) di scegliere volontariamente il male, il proprio interesse, e di fuggire davanti alle difficoltà. Nel racconto (simbolico) di Luca e Matteo, Cristo subisce tre tipologie di tentazioni: trasformare i sassi in pane, lanciarsi dalla torre per indurre la divinità a intervenire, adorare il Maligno per ottenere il potere; fuor di metafora significa annullare il limite della materia che obbliga al cibo e al consumo, sfidare Dio e indurlo a intervenire, affermare il proprio potere in piena autonomia dal divino. Le risposte date da Cristo alle tre tipologie di tentazioni richiamano citazioni bibliche, ma possono essere sintetizzate in una totale e definitiva accettazione del limite della dimensione umana. Al di fuori di Dio che si fa uomo -al di fuori del Cristo- non sembra dunque esserci spazio in Dio per il male fisico e morale; al di fuori dell’uomo e della realtà umana non sarebbe possibile trovare traccia del male.

In conclusione potremmo dire che Dio non ha voluto direttamente Auschwitz, ma volendo l’uomo indirettamente ha accettato che la realtà umana potesse (e forse dovesse) passare anche per Auschwitz. Giustamente qualcuno si è chiesto dove era Dio al tempo di Auschwitz; possiamo dire che Dio era là in quel campo, presente in quegli uomini (vittime e carnefici); ed ha permesso Auschwitz perché ha permesso (e voluto) l’uomo.

Un’ultima riflessione. La nostra mente ha difficoltà a comprendere vicende come l’olocausto anche a causa dalla nostra visione “cronologica” della storia; noi iscriviamo in un tempo definito qualunque vicenda e la viviamo in divenire. Per Dio invece l’assenza della dimensione temporale comporta una visione globale della storia dell’uomo, per Lui nell’Istante senza tempo è inserito l’inizio, lo svolgersi e la fine del singolo uomo e dell’intera umanità, nell’Unico Momento c’è tutto il bene e tutto il male dell’uomo. Nell’Unico Attimo Eterno Dio possiede tutto l’uomo. Solo seguendo questa idea credo sia possibile comprendere Agostino nella sua negazione del male; uscendo da una visione cronologica del mondo, e della nostra stessa esistenza, riusciamo a non separare più il bene e il male, potendo così concepire l’essere nella sua unità e completezza, e giungere alla comprensione piena sia dell’uomo che di Dio.