Tag
Buddha, creazione, Dio, fisica quantistica, genetica, genitorialità, Incarnazione, intersoggettività, maternage, maternità, mistero, morte, nascita, neuroni specchio, ontogenesi, ossitocina, paternità, prolattina, vita
PREMESSA
Diventare genitori, offrendo al mondo un individuo nuovo, è un evento profondamente esistenziale, capace di attivare pensieri ed emozioni al contempo personali e universali. Un’esperienza così coinvolgente non può essere compresa utilizzando i semplici paradigmi biologici, e non può neppure essere spiegata attingendo alle ordinarie conoscenze socio-culturali. Crediamo che la ‘nascita’ richieda una visione olistica e integrata, che utilizzi il dialogo di saperi diversi, dove le conoscenze tecnico-scientifiche sappiano legarsi a quelle etico-umanistiche. Pensiamo che soltanto un processo profondamente multidisciplinare possa illuminare l’esperienza della nascita, incrementando la consapevolezza sia dei neo-genitori che degli operatori , eliminando fuorvianti e parziali visioni specialistiche. Rispetto a un paio di generazioni fa, l’attuale istituzionalizzazione dell’esperienza generativa ha visto incrementare efficacia e sicurezza, ma ha profondamente minato la forza e la ricchezza umana che da sempre caratterizzano il ‘mettere al mondo’. Scopo di questo articolo è visitare la nascita e il diventare genitori attraverso i contributi di discipline diverse da quelle biologiche e mediche, utilizzando le sollecitazioni ricevute da letture e riflessioni soggettive, e quindi necessariamente parziali; l’intento è fornire un semplice e personale contributo, con la speranza che altri possano aggiungere riflessioni e nuove ‘contaminazioni di saperi’.
FILOSOFIA: IL MISTERO
Nella filosofia troviamo spunti importanti e unici per provare a esplorare uno dei più difficili e controversi aspetti dell’esperienza del generare: il mistero; cioè quella parte nascosta e incomprensibile che permea la gravidanza e il parto, e in minor modo anche il successivo periodo di accudimento nel quale prende forma una persona nuova. Pavel Evdokimov (1901-1970), è un filosofo e teologo russo, non molto noto in Italia, che tra le altre cose ha scritto: “Non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere grazie alle cose che non conosceremo mai”. Questo pensiero non è riferito direttamente alla nascita, ma l’esperienza generativa può benissimo essere inclusa in questa folgorante riflessione. Come medico, ritengo che subordinare la conoscenza al mistero metta al giusto posto la nostra visione scientifica, necessaria e irrinunciabile, ma troppo condizionata da certezze ingiustificate (con il rischio continuo di sconfinare in un pericoloso senso di onnipotenza).
L’intuizione di Evdokimov giustifica quella quota di imprevedibile e di imponderabile che la nascita comprende in sé, e che esami e strumenti sofisticati sembrano voler negare. A questo riguardo, a titolo di esempio, cito il ‘mistero’ dell’impianto del feto nell’utero (che non subisce l’attesa reazione di rigetto); ma anche il mistero di quelle poche settimane di embriogenesi nelle quali ogni singola cellula trova una perfetta collocazione; e poi la funzione, solo parzialmente esplorata, della ‘miracolosa’ placenta senza la quale nessuna gestazione sarebbe possibile; e ancora, l’induzione del parto attivata da un sofisticato meccanismo ormonale, non del tutto chiarito, con il coinvolgimento sia il cervello del feto che di quello materno; infine il processo di sinaptogenesi che nel primo anno di vita determina una ‘potatura’ di neuroni non necessari e attiva miliardi di connessioni che determineranno il destino della singola persona. Ma l’elenco potrebbe essere davvero lungo.
Un significativo contributo sul rapporto nascita-mistero ci è fornito da Maria Montessori (1870-1952). Nel suo bellissimo libro “Il segreto dell’infanzia” del 1936 scrive: “C’è un segreto nell’anima del bambino che non è possibile penetrare se egli stesso non ce lo rivela a mano a mano che costruisce se stesso. Come nella segmentazione della cellula germinativa, dove non c’è nulla se non un disegno. E’ per questo che solo il bambino può farci delle rivelazioni sul disegno naturale dell’uomo”. Solo il bambino quindi è in grado di raccontare se stesso. Per Montessori solo ‘leggendo’ questo misterioso essere in formazione possiamo sperare di poterlo conoscere e comprendere. E conoscendo il bambino comprendiamo l’uomo, e dunque noi stessi.
Il tema del segreto e del nascondimento è intrinseco al nascere, ‘al venire alla luce’. Per la filosofa spagnola Maria Zambrano (1904-1991) l’aspetto più tragico e paradossale della nascita è proprio l’entrare nella visibilità, e l’essere umano ‘è visto prima di poter vedere e di vedersi’. Ricordo, a questo proposito, la frase di un bambino di 4 anni di Reggio Emilia, che durante un’attività a tema, ha dichiarato: ‘nascere significa che si appare’.
TEOLOGIA: L’INCARNAZIONE
Il concetto di ‘incarnazione’ è generalmente attribuito ai fondamenti della religione cristiana. Il testo più profondo a questo proposito lo troviamo nell’incipit del Vangelo di Giovanni: “In principio era il verbo e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio (…) In lui era la vita (…) E il verbo si fece carne ”. Nel testo greco si parla di logos, cioè idea, pensiero. C’è un progetto trascendente che si incarna nella dimensione umana divenendo evento storico inserito nello spazio-tempo. Per la psicoanalista francese Monique Bydlowski “qualunque gestazione realizza un’incarnazione: è la conversione di un desiderio, di un progetto, in uno sviluppo biologico” (da ‘Sognare un figlio’, 2004). Limitarsi a osservare e considerare l’aspetto biologico, carnale, della nascita, impedisce la ricerca del nascosto, di quell’essenziale invisibile agli occhi tanto caro a Saint-Exupéry; ma quello che vediamo, che teniamo in braccio, in realtà è un progetto invisibile che alla fine riesce a farsi visibile.
Il filosofo francese Jean Paul Sartre (1905-1980), negli anni del carcere durante la II guerra mondiale, ha scritto un’opera teatrale che tratta della natività di Maria (“Bariona o il figlio del tuono” 1940). In quest’opera troviamo un brano che descrive con particolare intensità la maternità di Maria, che è poi la maternità di ogni madre: la Madonna tiene in braccio suo figlio,lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. E’ fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. E’ Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive”. Per la religione cristiana ogni essere umano è ‘immagine del Creatore’; ogni bambino è quindi ‘immagine’ della madre e del padre, e ogni genitore trova affinità e somiglianze nel proprio bambino. Nello stesso testo Sartre mette in bocca al protagonista Bariona queste parole: “Donna, questo bambino che vuoi far nascere è come una nuova edizione del mondo. Attraverso di lui le nubi e l’acqua e il sole e le case e la pena degli uomini esisteranno una volta di più. Tu ricreerai il mondo (…) Fare un figlio è approvare la creazione”. Questo concetto ci porta all’idea che ogni nascita, ogni atto generativo, si inserisce nel cammino dell’evoluzione, contribuendo alla storia della nostra esperienza umana.
La venuta al mondo di ognuno di noi rappresenta un evento unico e irripetibile: se ci fosse anche soltanto un altro essere umano come noi, la nostra vita non servirebbe e probabilmente non avrebbe senso. Ma ogni nascita segue altre nascite, ogni individuo è in continuità con quanti lo hanno preceduto. Camminiamo all’interno di una infinita staffetta, nella quale ognuno di noi nascendo si assume l’incarico di portare più avanti il testimone del lungo cammino dell’umanità. Ogni nascita riassume e ricomprende l’unicità e la continuità, l’individualità e la collettività. Ogni singolo sviluppo biologico comprende in sé anche tutto il ciclo vitale che l’ha preceduto, dai primi semplici microrganismi alle forme viventi più complesse. In estrema sintesi: l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. Nel momento del concepimento avviene un vero e proprio Big Bang, a cui segue una rapida esplosione di duplicazione cellulare, con espansione e migrazione per giungere alla formazione dei diversi organi, proprio come avvenne all’universo sei miliardi di anni orsono. Alla ‘creazione’ iniziale è seguito un lungo e progressivo sviluppo che attraverso l’evoluzione ha portato all’attuale condizione; è quanto avviene al singolo individuo che dopo la nascita inizia un cammino di maturazione caratterizzato dall’emergere della coscienza e successivamente dalla capacità di gestire impulsi e desideri. La tappa più alta del nostro processo evolutivo è rappresentata dall’intersoggettività e dalla relazione sociale, che comprende le competenze etiche ed estetiche, e termina con la comprensione e l’accettazione della nostra morte.
Il mistico e filosofo indiano Osho (1931-1990) ci fornisce un’altra interessante chiave di lettura per capire più in profondità l’esperienza del nascere. In uno dei suo numerosi testi scrive: “La nascita non termina il giorno in cui vieni al mondo, quel giorno è solo l’inizio: il giorno in cui hai lasciato il ventre di tua madre, non sei nato, hai iniziato a nascere”. E’ l’idea della nascita non come evento, ma come processo. Venire al mondo, entrare in questa dimensione esistenziale, rappresenta soltanto l’avvio di un lungo percorso che comprende continui passaggi e transizioni. Potremmo dire che ogni mattina, svegliandoci, veniamo al mondo, tornando alla vita cosciente e attiva. In questo perenne cambiamento è compreso tutto il fascino, ma anche tutta la fatica, del vivere; ogni giorno, ogni ora, torniamo a nascere. Questa continua ri-nascita può esaltare, ma può anche annientare, perché conduce alla percezione della fine, del termine di quel processo di ri-nascita che chiamiamo morte. E’ innegabile lo stretto legame tra la nascita e la morte, tra l’inizio e la fine, e ogni tentativo di rimozione di questa consapevolezza toglie significato e profondità alla stessa esperienza del nascere e del vivere.
FISICA QUANTISTICA: L’INTERRELAZIONE
Dopo un’incursione nella filosofia, nella religione e nella psicoanalisi proviamo a cercare altre idee tra le ultime scoperte della fisica. In particolare è la fisica quantistica a fornirci spunti interessanti e inaspettati. Fisici teorici e matematici come Bohr, Heisemberg, Einstein, Dirac, hanno evidenziato gli aspetti fondamentali della realtà ad oggi noti: la granularità, l’indeterminismo e la relazione. La prima qualità traslitterata nel mondo della biologia rappresenta le cellule che costituiscono ogni essere vivente, la seconda caratteristica dà conto delle variabili e delle diverse possibilità intrinseche ad ogni sviluppo vitale, il terzo aspetto invece è strettamente legato ai processi intersoggettivi e ai legami relazionali che caratterizzano l’esistenza degli organismi più evoluti. L’interrelazione tra gli esseri umani è alla base della struttura sociale che caratterizza la nostra specie e rappresenta il fondamento di ogni nostro processo identitario. Conosciamo noi stessi solo attraverso la comprensione dell’altro; senza un altro che ci funge da specchio non potremmo giungere all’idea di noi stessi.
Il fisico teorico Carlo Rovelli, in un recente testo divulgativo che tratta delle ultime scoperte della fisica quantistica (“La realtà non è come ci appare”, 2014); scrive: “Il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili. Tutte le caratteristiche di un oggetto esistono solo rispetto ad altri oggetti. E’ solo nelle relazioni che si disegnano i fatti della natura. Non c’è realtà senza relazione fra sistemi fisici. Non sono le cose che possono entrare in relazione, ma sono le relazioni che danno origine alla nozione di ‘cosa’. La meccanica quantistica ci insegna a pensare in termini di ‘processi’. Senza interazione quindi non c’è realtà. La relazione appare come la causa del tutto, e non una semplice conseguenza dell’esistenza delle cose. Se questa è la caratteristica profonda della materia che ci costituisce, ognuno di noi può esistere e definirsi solo nella relazione e nell’interrelazione con l’altro. Credo che se un feto o un neonato potessero parlare e partecipare a questa nostra discussione ci guarderebbero con stupore, e anche con un po’ di compatimento, e ci direbbero: ‘dov’è la straordinarietà di questa intuizione scientifica? La nostra vita nella pancia e poi quella in braccio a succhiare il seno sono il più chiaro esempio che questa caratteristica della materia è vera. Siete voi adulti a esservene dimenticati, continuando a vivere infelici e solitari nel vostro innaturale individualismo’.
NEUROSCIENZE: L’INTERSOGGETTIVITA’
Dopo questo volo nell’infinitamente piccolo, siamo pronti per entrare nel mondo delle neuroscienze e della psicologia. Antonio Imbasciati è uno ‘psicologo perinatale’ che da anni indaga la mente umana fin dal primo periodo dello sviluppo (per periodo perinatale intendo i primi mille giorni dal concepimento, quindi tutta l’esperienza prenatale e i primi due anni di vita). Una sintesi, che definirei folgorante, del pensiero di Imbasciati la troviamo nella frase: “la mente non è per imparare, ma è essa stessa appresa”. Questo concetto riassume due decadi di studi di neuroscienze e fa ben comprendere come lo sviluppo cerebrale non sia predefinito e regolato da forze innate e immutabili, ma rappresenti il prodotto e l’effetto delle nostre esperienze precoci. Oggi sappiamo che ‘la genetica propone e l’ambiente dispone’, cioè che la parte innata di quello che diventiamo agisce in misura limitata (dovremmo parlare di semplice predisposizione), mentre è predominante l’effetto delle esperienze che facciamo e delle relazioni nelle quali ci troviamo immersi. In pratica, molti dei comportamenti che un tempo consideravamo innati sono in realtà competenze acquisite molto precocemente.
Un altro importante studioso della mente è Daniel Siegel, che oltre ad una intensa produzione scientifica, ha saputo scrive anche testi divulgativi ricchi di informazioni e riflessioni. Ne “La mente relazionale”, pubblicato nel 2001, egli scrive: “la mente umana emerge da processi che modulano flussi di energia e di informazioni all’interno del cervello e fra cervelli diversi. La mente si forma all’interno delle interazioni fra processi neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali. Lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali dipende dalle modalità con cui le esperienze, e in particolare quelle legate a relazioni interpersonali, influenzano e modellano i programmi di maturazione geneticamente determinati del sistema nervoso”. Siegel ribadisce che le prime esperienze di relazione e di attaccamento sono in grado di modulare il patrimonio genetico e indirizzare le diverse predisposizioni. Oggi sappiamo inoltre che la plasticità cerebrale ha una finestra di massima sensibilità proprio tra le 28 settimane di gestazione e i primi due anni dalla nascita; sappiamo inoltre che in questo periodo si realizzano i collegamenti neuronali (‘sinaptogenesi’) e subito dopo si attiva la maturazione definitiva (‘mielinizzazione’).
E’ affascinante scoprire che acquisizioni scientifiche altamente tecniche e del tutto recenti, sono in realtà patrimonio del pensiero umano da diversi millenni. Una frase attribuita a Buddha recita: “tutto ciò che siamo è un riflesso di quello che abbiamo pensato. La mente è tutto. Quello che pensiamo diventiamo”. Questa limpida intuizione di oltre duemila anni orsono è oggi confermata da numerose e approfondite ricerche scientifiche.
Restando nell’ambito delle neuroscienze, la principale scoperta degli ultimi anni è stata quella dei ‘neuroni specchio’. E’ merito del gruppo del prof. Rizzolatti aver avviato lo studio di queste cellule cerebrali, che si sono dimostrate alla base di caratteristiche come l’empatia, l’intersoggetività e la vita sociale. Ma ascoltiamo direttamente le parole dello studioso tratte dal libro divulgativo “So quel che fai” (2006): “l’attivazione dei neuroni specchio è in grado di generare una rappresentazione motoria interna (atto potenziale) dell’atto osservato, dalla quale dipenderebbe la possibilità di apprendere via imitazione (…) I neuroni specchio e la selettività delle loro risposte determinano uno spazio d’azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena d’atti, nostri o altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi, senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata operazione conoscitiva. Percezione ed esecuzione posseggono pertanto uno ‘schema rappresentazionale comune’ (…) Il meccanismo dei neuroni specchio incarna sul piano neurale quella modalità del comprendere che, prima di ogni mediazione concettuale e linguistica, dà forma alla nostra esperienza degli altri (…) e alla rete delle nostre relazioni interindividuali e sociali”.
Quello che ancora non è stato chiarito è l’ontogenesi dei neuroni specchio, ciò che li favorisce e ciò che li inibisce (e in questo ultimo caso sono allo studio implicazioni sulla sfera autistica); è invece molto evidente che questo processo maturativo si realizza molto precocemente. Il neonato, fino a quando non termina il processo identitario e raggiunge la consapevolezza di sé, vive perennemente immerso nella relazione con il genitore (o con la principale figura di accudimento) e apprende principalmente per imitazione. Le esperienze precoci diventano quindi determinanti sia per dare una direzione allo sviluppo cerebrale sia per promuovere la maturazione delle competenze sociali e dell’intelligenza emozionale.
Molte scoperte scientifiche sono spesso precedute da intuizioni di uomini capaci di leggere in profondità la realtà dell’uomo e della natura (di solito si tratta di poeti e letterati). I neuroni specchio non fanno eccezione. Tolstoj nel suo romanzo ‘La suonata a Kreutzer’ del 1889 (quindi con circa un secolo di anticipo sula scoperta scientifica) così scrive: “la musica mi costringe a dimenticarmi di me, della mia vera situazione, mi trasporta in una situazione nuova, e che non è la mia, sotto l’influsso della musica mi pare di sentire quello che in realtà non provo, di capire quello che non capisco, di potere quello che non posso. Io lo spiego dicendo che la musica ha la stessa azione dello sbadiglio, del riso: non ho sonno, ma sbadiglio guardando della gente che sbadiglia; non c’è ragione di ridere, ma rido sentendo della gente che ride. Essa, la musica, mi trasporta d’un colpo, immediatamente, nello stato d’animo in cui si trovava colui che ha scritto la musica. Mi fondo spiritualmente con lui e insieme a lui passo da uno stato d’animo all’altro. Ma perché lo faccio, non so” .
L’esperienza precoce della relazione tra il bambino e i suoi genitori può essere favorita da progetti come ‘Nati per Leggere’ e ‘Nati per la Musica’. Queste iniziative si propongono di sostenere la genitorialità attraverso la lettura ad alta voce e l’uso del suono vocale o strumentale. Da queste esperienze piacevoli il neonato acquisisce capacità di ascolto e di interazione positiva. ‘Sentendosi sentito’ dal genitore conosce se stesso come davanti ad uno specchio, sviluppando empatia e sensibilità sociale. Queste interazioni permettono all’adulto di osservare e conoscere più a fondo il bambino, individuando aspetti non sempre evidenti del suo carattere e delle sue preferenze. Ne deriva un’opportunità importante per realizzare le prime forme di comunicazione e di condivisione; una solida base per gli scambi che si attiveranno, in una forma ancora più elaborata, all’acquisizione del linguaggio verbale.
NEUROENDOCRINOLOGIA: GLI ORMONI DELL’AMORE
L’ossitocina è un ormone prodotto dal cervello come conseguenza di stimoli piacevoli e intimi (cutanei, ma anche visivi o acustici). Questo mediatore cellulare è alla base degli effetti benefici del contatto pelle-pelle, ma anche di quello occhi-occhi, delle carezze e del massaggio, del bacio e dell’abbraccio. E’ l’ormone degli innamorati, di qualunque età e genere. Serve per la riproduzione (orgasmo), la nascita (induzione del parto e contrazioni uterine), l’allattamento (fuoriuscita del latte), l’accudimento (sensibilità, attenzione, sacrificio), la costituzione e il mantenimento dei legami, delle capacità sociali e della comunicazione positiva. L’ossitocina è inibita da altri ormoni, come le epinefrine e il cortisolo, attivati dallo stress, dalla paura, dal dolore, dal pericolo. E’ per questo che si partorisce e si allatta più facilmente in un ambiente confortevole, famigliare, poco illuminato (ma lo stesso potremmo dire del rapporto sessuale). In forma chimica (spray nasale) l’ossitocina ha ridotto sperimentalmente i conflitti; inoculato in ratte vergini ha prodotto atteggiamenti materni; nei giovani macachi ha attivato comportamenti affiliativi e nei macachi adulti forme più attive di accudimento.
La prolattina nei mammiferi regola la produzione del latte, negli uccelli attiva la nidificazione e la cova; in generale promuove attenzione e protezione della prole. Questi effetti però sono sempre fortemente influenzati dall’ambiente e dal contesto di vita. In presenza di minacce (ad esempio predatori) o di stress, la loro azione viene decisamente condizionata o ostacolata. I topi che vivono in contesto sicuro e ricco di cibo hanno alti livelli di questi ormoni, sono monogami, socievoli e sviluppano cure biparentali; gli stessi animali in contesti difficili e minacciosi diventano poligami e aggressivi e le cure dei cuccioli sono riservate alle femmine.
IL PAPA’: MATERNAGE PATERNO?
Ossitocina e prolattina, fini regolatori dell’allattamento, sono presenti anche nei papà. La ricercatrice Ruth Feldman, ha trovato interessanti correlazioni tra i comportamenti accudenti dei padri e i livelli di questi ormoni nel sangue e nella saliva. Anche la paternità quindi ha una profonda base biologica, e anche i papà sono predisposti a prendersi cura dei loro bambini. I padri più coinvolti e reattivi nell’interazione con il bambino, sia nel gioco sociale che nella verbalizzazione in motherese, presentano maggiori livelli di ossitocina. Mansioni prolungate di cura della prole sono in grado di ridurre fin oltre il 30% i livelli di testosterone, migliorando la sincronia (anche sessuale) tra madre e padre nei mesi successivi al parto. La scoperta più importante di Feldman riguarda, a mio avviso, le differenze di genere che hanno evidenziato le sue ricerche: nelle madri si è riscontrato un aumento di ossitocina salivare poco prima del contatto con il bambino, mentre nei padri l’incremento è stato registrato subito dopo il contatto con il figlio. Significa che le madri dal momento del concepimento sono sempre ‘accese’ e coinvolte, mentre per il maschio è necessaria qualche forma di ‘attivazione’. Potremmo anche concludere che dopo il parto il contatto pelle a pelle, o il semplice tenere in braccio, è forse più importante per il papà che per la mamma. Alcuni psicoanalisti sostengono che il padre deve sempre ‘adottare’ il figlio, deve cioè intraprendere un inconscio e sottile cammino di riconoscimento e affiliazione.
Un’altra importante differenza di genere tra padri e madri è emersa dalle ricerche di Massimo Ammaniti (‘La nascita dell’intersoggettività’, 2014), ordinario di psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, che ha studiato la genitorialità nelle coppie che vivono un conflitto relazionale: mentre le madri riescono ugualmente a prendersi cura del bambino, i padri sviluppano comportamenti accudenti solo in presenza di una relazione do coppia soddisfacente ed equilibrata.
Torniamo così alla riflessione che per la madre il figlio è una parte di sé che la occupa fisicamente e mentalmente, mentre il padre deve scegliere se farsi coinvolgere da questa profonda esperienza esistenziale oppure tenersene fuori e delegarla ad altri. Diversi studi sociologici, condotti prevalentemente nei Paesi scandinavi, hanno mostrato come l’assenza del padre possa produrre importanti conseguenze negative sulla crescita del bambino, con effetti che si evidenziano anche tardivamente in età adolescenziale e adulta. Altre ricerche, realizzate anche in Italia, hanno evidenziato che padri accudenti nei primi anni di vita del bambino, nell’eventualità di separazione dalla famiglia, mantengono negli anni successivi un atteggiamento più interessato e partecipe alla crescita del figlio.
Purtroppo è ancora presente il vecchio pregiudizio che i maschi non sanno prendersi cura dei bambini, e molti operatori sottovalutano l’importanza di coinvolgere i padri nelle diverse fasi del percorso nascita. Le stesse sedute ecografiche andrebbero considerate tappe fondamentali per la genitorialità, soprattutto del padre, al quale manca la percezione fisica del bambino. Un papà accudente e coinvolto renderà meno impegnativo il faticoso compito materno, e la condivisione di scelte e decisioni potrà ridurre il rischio di depressione della madre. Attenzione però, i disturbi emozionali del dopo parto possono colpire anche i papà in misura non tanto diversa da quelli della madre. Di solito i padri presentano sintomi differenti rispetto alle madri, evidenziando prevalentemente manifestazioni psicosomatiche e comportamenti di ‘fuga’ nei confronti delle responsabilità coniugali e familiari.
Per la figura del papà si potrebbe cominciare a parlare di ‘maternage paterno’, che però non deve sostituire la funzione materna. Occorre evitare il ‘mammo’: al bambino non servono due mamme, una delle quali un’inutile e pelosa imitazione. Il padre si occuperà del bambino con compiti simili a quelli della mamma, ma svolti in maniera specifica e personale; il bambino saprà distingue tra i due e farà così la prima fondamentale esperienza di relazione diversificata, iniziando quel percorso di separazione dalla simbiosi materna che lo porterà a maturare la propria identità e individualità. Una relazione parentale equilibrata e armoniosa permette al bambino di apprendere le basi dell’intersoggettività e della convivenza sociale. Già dal secondo anno di vita, oltre a rapportarsi con ognuno dei genitori, il bambino imparerà a ‘relazionare con una relazione’, e se questa relazione è positiva la sue future competenze sociali avranno solide basi e maggiori capacità di successo.
Sulla paternità, ancora una volta, la letteratura ha anticipato la scienza. Troviamo così un autore come Joseph Roth, mai diventato padre, che nel romando “La cripta dei Cappuccini” del 1938 (il tema è la caduta dell’impero asburgico) scrive: “sono esistiti milioni e miliardi di padri, dacchè esiste il mondo. Io ero uno fra miliardi. Ma nell’istante in cui potei prendere fra le braccia mio figlio, provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno, quando Egli vide la sua opera imperfetta pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo fra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante, brutta e paonazza, sentivo chiaramente quale mutamento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa fra le mie braccia, da esse emanava una forza indicibile. Più, era come se in questo povero tenero corpicino si fosse accumulata tutta la mia forza, come se tenessi in mano me stesso e il meglio di me”.
Un altro formidabile contributo lo troviamo in Anna Karenina, scritto da Tolstoj nel 1877, dove negli ultimi capitoli il protagonista maschile, Levin, assiste al parto della moglie Kitty e alla nascita del primo figlio. Sono quattro capitoli intensi dove il parto è visto con gli occhi del maschio, un turbine di emozioni difficili da controllare che portano a una amara ma profonda conclusione: “quel che provava verso quel piccolo essere non era affatto ciò che si era aspettato. Nulla di allegro e gioioso c’era in quel sentimento, al contrario, una nuova tormentosa paura. Era la coscienza di un nuovo lato vulnerabile”.
IN CONCLUSIONE: LA GENITORIALITA’
Potremmo definire la genitorialità l’insieme della sensibilità e dell’affettività inconsce della madre e del padre; uno stato mentale e comportamentale che induce profonde modifiche neurologiche e ormonali, che permette l’accudimento e la protezione della prole, favorisce l’affinamento di empatia e sensibilità, incrementa capacità di coping, flessibilità, intelligenza emozionale, una visione più creativa e aperta al futuro. La genitorialità è ‘fare spazio’. Spazio dentro di sé in gravidanza, nel fisico e nella mente, ma anche nella casa, negli armadi, nell’auto …Un fare spazio anche nel tempo, che ci porta a rileggere la nostra storia passata e a immaginare un futuro nuovo. Il bambino quindi ci occupa, diventa parte di noi, senza di lui ci sentiamo incompleti. Lo spazio maggiore però lo trova nella nostra mente e nelle nostre emozioni, perché ci obbliga a pensare, progettare e immaginare un mondo nuovo. Il difficile compito richiesto ai genitori è quello di mantenersi in equilibrio tra l’intuizione, che permette improvvisazione e creatività, e la riflessione, che fornisce la capacità di programmare e pianificare. Per aiutare le madri e i padri occorre riuscire a fornire informazioni e stimoli di riflessione senza inibire le loro competenze innate e la personale ricerca di soluzioni. Anche i manuali e metodi per ‘allevare la prole’ possono essere pericolosi e da maneggiare con molta attenzione.
Con la nascita del nostro bambino abbiamo dato inizio a un cammino che ha una meta, ma non ha un arrivo. Attraverso di lui torniamo alle radici della nostra esistenza. Siamo condotti all’essenziale. Il bambino ci fa uscire da noi stessi e ci porta alla profondità della relazione, al noi, infatti la nascita è sempre una condivisione e può avvenire soltanto se c’è qualcuno che la precede. Il prima di me diventa parte di me e mi costituisce. Così al termine della vita, dopo la nostra morte, quello che siamo riusciti a generare proseguirà il nostro cammino, rendendoci partecipi di una eternità che solo in minima parte ci è concesso comprendere.
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Questo articolo è tratto dagli appunti utilizzati per la conferenza tenuta il 6 maggio 2014 a Lerici nell’ambito del Festival Consapevol-Mente.
Alessandro Volta
Pediatra e neonatologo, è responsabile dell’assistenza neonatale degli ospedali di Montecchio Emilia e Scandiano (Reggio Emilia); istruttore regionale per i corsi di rianimazione neonatale; membro della Commissione nascita della regione Emilia Romagna; è iscritto alla Società italiana di neonatologia e all’Associazione culturale pediatri. Tiene corsi di accompagnamento alla nascita per genitori e corsi di formazione per il personale sanitario sulla genitorialità e il sostegno all’allattamento al seno. È autore di Apgar 12 (2006), Nascere genitori (2008), Mi è nato un papà (2010), Crescere un figlio (2013). Cura il sito web vocidibimbi.it e il blog nasceregenitori.net. E’ padre di tre figli.
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Volta A. ‘Crescere un figlio’ Mondadori, 2013
WHO Care in Normal Birth: a pratical guide. WHO/FRH/MSM/96.24 (1996)
Winnicott D.W. ‘I bambini e le loro madri’ Raffaello Cortina1987
Zajczyk F., Ruspini E. ‘Nuovi padri’, Baldini e Castoldi Dalai, 2008
Bello e ricco di stimolanti riflessioni
Grazie. E un Bellissimo Lavoro, che “apre” l’Orizzonte dell’esperienza Nascita in modo completo, piacevole e molto interessante, rimanendo comprensibile anche quando espone concetti ancora nuovi !
Ritengo che andrebbe divulgato…!
Bellissimo! Dovresti trovare un editore che ne faccia un libretto!
Grazie veramente!
Grazie per questo bellissimo testo…