Nell’arco di un paio di settimane due madri hanno ucciso il loro bambino. La notizia viene ampiamente divulgata dai media, e sui giornali e i social network si trovano ampi dettagli che descrivono i due episodi. La società civile è ammutolita e si chiede: ‘cosa sta succedendo?’. La risposta però è piuttosto semplice, non sta succedendo proprio nulla, si tratta di vicende piuttosto comuni e presenti da sempre. La novità forse è nella risonanza mediatica che non riesce a mantenere questi episodi nel loro naturale contesto: i fatti di cronaca sono per loro natura eccezionali e anomali, e destano interesse e curiosità proprio perché straordinari; parlarne a lungo e con eccesso di particolari rischia di renderli ordinari, sollecitando riflessioni e generalizzazioni fuorvianti e confondenti.
L’infanticidio esiste da quando l’uomo abita questo pianeta. E’ stato ampiamente usato per pianificare le nascite e per selezionare i bambini più sani e robusti (un’antica e primitiva forma di eugenetica). In molte parti del mondo è una pratica ancora utilizzata, anche in forma legale (in India e Cina da decenni si seleziona la prole in rapporto al genere). Nei paesi occidentali la selezione di bambini con sindrome di Down viene fatta in periodo prenatale e quindi fa meno scalpore. Esistono inoltre forme di infanticidio indirette e meno violente, come l’abbandono o l’incuria. Per secoli, anche nel nostro Paese, abbiamo riempito gli orfanotrofi di piccoli innocenti (e ricordiamoci che la mortalità in questi istituti era generalmente altissima). Solo recentemente l’infanzia è diventata importante e da proteggere, e solo in poche zone del pianeta il figlio è qualcosa di prezioso, che richiede significativi investimenti e produce grandi aspettative da parte dei genitori.
Allora cosa è successo a queste due madri che si sono macchiate di un crimine contro natura? Come è possibile uccidere la creatura che per lunghi mesi è stato un pezzo di te e che poi hai allattato e accudito sacrificando la tua persona e la tua integrità? La risposta è che questi episodi sono possibili, ma rappresentano situazioni eccezionali. L’analisi dei fatti, se vuole essere appropriata, deve indagare la rete sociale di queste persone, il loro vissuto infantile, l’attuale stabilità mentale ed emozionale. Si dovrebbe uscire dalla semplice e banale cronaca e inoltrarsi nell’ambito più accidentato e difficile della sociologia, della psicologia, della psichiatria. La vera domanda, a mio avviso, è: queste due madri in contesti di vita differenti sarebbero giunte ugualmente al gesto estremo? Se fossero state aiutate a gestire i loro sentimenti e le loro (fisiologiche) ambivalenze sarebbero riuscite a contenere le loro paure e i loro demoni interiori?
Questi episodi dovrebbero stimolare più efficaci azioni di prevenzione e maggiori investimenti per un aiuto fisico e psicologico dei genitori, di tutti i genitori. Oggi le famiglie sono invece sempre più isolate e slegate, e i genitore devono quotidianamente inventarsi le proprie soluzioni e conquistarsi i proprio precari equilibri. L’investimento sociale e politico per sostenere la prima infanzia è attualmente minimo e del tutto insufficiente. E una volta terminato il circo mediatico, tutto tornerà al solito oblio. Fino al prossimo fatto di cronaca….
L’importanza del contesto sociale, in entrambi i casi di infanticidio accaduti in questi giorni, è innegabile. Personalmente, ritengo che la pressione mediatica faccia la sua sostanziosa parte. Già da un po’ di anni nel nostro paese si è diffusa un’attrazione sempre crescente per fatti di cronaca nera (vedi il delitto di Cogne, il caso di Sara Scazzi, quello di Yara, ecc.). Sono nati veri e propri tabloid che trattano in maniera pressoché esclusiva di tali omicidi, acquistati dal lettore medio (che li accompagna con facilità a letture certamente più frivole). A mio parere l’italiano medio confonde – sempre meno consapevolmente – cronaca e gossip: non a caso i programmi pomeridiani si infarciscono di dubbie interviste e testimonianze a conoscenti delle vittime o degli assassini.
Incapperemo forse in una sorta di ‘normalizzazione’ dell’omicidio e della sofferenza?
Io credo che, in questo momento storico così cupo e in particolare anche in questo momento dell’anno in cui predomina l’oscurità, le persone più fragili e sensibili possano cedere alla pressione immane che è esercitata da tutto il contesto. Un tempo le azioni rituali erano importanti per entrare in connessione con l’inconscio e in particolare proprio con l’ombra: per esempio il “diasparagmòs” o sbranamento rituale, esercitato nei confronti di un animale, aveva la sua funzione. Oggi proviamo orrore nei confronti di queste pratiche, non ci scandalizziamo più di tanto se milioni di bambini nei paesi a fianco al nostro vengono sacrificati, sembriamo imperturbabili; ma appena uno o una di noi esprime la propria sofferenza, che è anche quella collettiva e quindi è anche nostra, la trasformiamo in un bel capro espiatorio. Cosa accade? E’ un rito: stiamo sbranando una persona che si è caricata addosso tutta la sofferenza del mondo.