Sui media e sui social sto leggendo interventi e commenti che ritengo fuorvianti e confondenti: un produttore cacciatore di attrici e modelle fa discutere su quanto è violenza e quanto è consenso interessato della vittima; un allenatore di 66 anni che ha rapporti con una giovane atleta di 12 anni accende un dibattito su quanto lei era consenziente; un genitore porta il figlio adolescente al pronto soccorso dopo averlo frustato con il caricabatteria del cellulare provocandogli profonde lesioni difficili da rimarginare, qualcuno sostiene che il ragazzo aveva davvero bisogno di una lezione; una prostituta viene trovata semicosciente legata a un cancello torturata da un cliente ‘che ha esagerato’, ma si tratta di una donna di serie B, invisibile e senza nome.
I commenti, più o meno anonimi, che trovo sui social non li vogliono neppure prendere in considerazione, sono materia per sociologi che si vogliono fare del male o per specializzandi in psichiatria che cercano argomenti per la tesi. Ma anche i commenti televisivi e giornalistici, provenienti cioè da persone ‘che hanno studiato’, mi sembra che non aiutino a capire il cuore del problema. Si spazia dalla denuncia intollerante e spesso violenta (‘mettiamo i violenti nelle condizioni di non nuocere: quindi castriamoli tutti’) al più o meno esplicito tentativo di giustificare o di capire le ragioni che hanno portato alla violenza (è vero che molti di questi soggetti hanno loro stessi subito violenza o sono cresciuti in un clima violento, ma questo interessa prevalentemente gli psicoterapeuti che li prendono in cura).
Penso che non sia utile neppure ragionare su cosa farei io al loro posto (‘io non rubo, quindi nessun altro deve rubare’), perché ognuno di noi è unico e ogni situazione è sempre ricca di variabili strettamente intrecciate. Mi sembra inutile anche chiudere l’argomento con un semplicistico ‘oltre un certo limite, questi comportamenti non sono accettabili’, ma chi stabilisce il limite? La legge, certo, ma la legge non ha risposte per ogni caso particolare, e comunque la legge viene alla fine, quando i fatti sono già avvenuti (e neppure la pena di morte o l’ergastolo hanno dimostrato un’efficacia preventiva). Trovo difficile stabilire, con chiarezza e in maniera definitiva, il concetto di limite: per il padre frustatore si è trattato di azione educativa, noi invece l’abbiamo definito ‘abuso di mezzi di correzione’, anche se il nostro concetto di ‘abuso’ è estraneo alla sua cultura di origine, dove un padre ha il diritto/dovere di picchiare un figlio, e quando necessario anche la moglie; il limite di età di un adulto per avere rapporti sessuali con una minorenne è stabilito dalla legge, ma la ragazza (o la bambina? anche questo è materia di dibattito) è risultata consenziente e quindi il rapporto non è stato violento? (forse però c’è stato plagio); il produttore è accusato di episodi di stupro, ma anche di altri episodi nei quali la sua azione più che violenta si è configurata come esercizio di potere (ma non è anche questo una forma di violenza?).
Allora come venirne fuori? Come poter giudicare o almeno capire? Ovviamente non ho ricette e verità in tasca. Però credo che la chiave di lettura per uscire da questa ‘palude ideologica e retorica’, e tentare di mettere a fuoco il tema delle violenze (tutte), possa essere solo quello del punto di vista dell’altro. Cioè dell’esercizio della sensibilità e dell’empatia che ci permettono di sentire quello che sente l’altro. Queste sono caratteristiche profondamente umane, che si sviluppano nei primi anni di vita, che si allenano crescendo e che derivano dalle esperienze di accudimento che riceviamo dagli altri, in primis dai genitori. E’ per questo motivo che occorrerebbe agire preventivamente investendo nel sostegno alle famiglie, fin dalle prime fasi della nascita di un bambino.
Ritengo che leggere con questa ottica gli episodi di cronaca renda più facile la comprensione del problema delle violenze: il ragazzo fustato è fortemente umiliato, danneggiato in maniera permanente fisicamente e psicologicamente, anche se le cicatrici dovessero con il tempo sparire; l’attrice che vuole fare carriera (a qualunque prezzo?) come vive la proposta indecente? che spazio di scelta può esercitare? quanto è schiacciata dalla posizione di potere dell’altro?; la ragazzina di 12 anni (forse donna perché mestruata, ma non certo matura per una relazione sessuale con un adulto) come può stabilire cosa è meglio per lei, per il suo corpo che sta maturando e la sua mente che sta cercando di capire cosa essere e cosa diventare?
Il punto di vista dell’altro però non può essere esercitato dalla società, dalla media degli altri (tutti alla fine diversi) o dal senso comune e dalla cultura (che cambiano nel tempo e nei luoghi), né tantomeno dai media (che comunque devono fare notizia per poter vendere un prodotto). Il punto di vista dell’altro deve essere agito dalla persona direttamente coinvolta nell’episodio, in quel momento e in quel contesto. A questo punto sento inevitabile l’obiezione: ‘è troppo facile, se così fosse non vedremmo più episodi violenti’. Per l’appunto vorrei indicare una strada per la prevenzione, quella vera, quella primaria, quella che permette di evitare che certi episodi si realizzino.
Rimarrebbe comunque lo spazio dei disturbi psichiatrici e della personalità disturbata, sui quali occorre agire con diagnosi precoci e terapia adeguata (stiamo parlando di soggetti patologici), ma verrebbero limitati i comportamenti parafisiologi, di tutti quei casi per i quali sentiamo dire: ‘sembrava una persona normale’, ‘chi l’avrebbe mai detto che quello dell’ultimo piano picchiava a sangue la moglie?’. Educare la società all’empatia, al punto di vista dell’altro, all’attenzione per l’altro, chiunque esso sia. Molti lo considerano impossibile, una vera e propria utopia. Ma perché non provarci? Perché non iniziare, da oggi, da noi. Per chi non riesce da solo potremmo istituire corsi di empatia, come per la disassuefazione dal fumo o dal gioco d’azzardo.
Nel macro, anche i conflitti mondiali possono essere evitati attraverso la ricerca del punto di vista dell’altro: Israele che sente cosa prova la Palestina e viceversa. Nel micro, un credente e un ateo, un bianco verso un nero, un residente verso un migrante, un sano verso un disabile, un uomo verso una donna, un adulto verso un bambino. Occorre però partire dall’inizio, dalla nascita, da coloro che nascono oggi. E la decisione può essere solo individuale. Partendo da me e da te.